50 anni fa moriva, stroncato da un devastante cancro ai bronchi, Beppe Fenoglio (1922-1963), il diamante nero del nostro Novecento (espressione che lui attribuiva a Marlowe per la letteratura inglese). Il 2013 è già segnato da una costellazione di eventi per ricordarlo che forse aiuteranno a comprendere quanto sia straordinaria la sua figura nel nostro panorama letterario. Fenoglio riuscì dove gli altri avevano fallito (Calvino dixit), ma fu un astro nero, costretto a fare a pugni con la sfortuna, o prendendo spunto da un suo titolo, con la «malora»: morì infatti quarantenne nella più felice stagione della vita: stava scrivendo in maniera indiavolata il suo grande romanzo e da un paio di anni (dopo una tardiva vocazione matrimoniale) si era scoperto padre dolcissimo di Margherita, che sarà destinataria di uno dei suoi ultimi biglietti dall’ospedale torinese delle Molinette: «Ciao per sempre, Ita mia cara. Ogni mattina della tua vita io ti saluterò, figlia mia adorata. Cresci buona e bella, vivi con la mamma e per la mamma e talvolta rileggi queste righe del tuo papà che ti ha amato tanto e sa di continuare a essere in te e per te. Io ti seguirò, ti proteggerò sempre, bambina mia adorata e non devi pensare che ti abbia lasciata…». 



In vita Fenoglio poté vedere soltanto tre opere pubblicate: i racconti de I ventitre giorni della città di Alba (1952), La malora (1954), entrambe uscite per gli einaudiani Gettoni di Vittorini, e Primavera di bellezza (Garzanti, 1959); il racconto perfetto Una questione privata e il titanico (elaboratissimo quanto incompiuto) Partigiano Johnny, uscirono postumi rispettivamente nel 1963 e nel 1968 per la curatela di Lorenzo Mondo. 



Le ragioni della grandezza di Fenoglio sono molteplici, ma forse si può partire considerando Il partigiano Johnny come «il» romanzo di formazione per eccellenza. È la storia di un ragazzo che diventa uomo attraverso il crogiolo della guerra. Di un ultimo romantico che con il suo bagaglio di poesia e un’inossidabile tempra morale sale sulle Langhe ghiacciate per combattere, anche a costo di combattere da solo: «Partì verso le somme colline, la terra ancestrale che l’avrebbe aiutato nel suo immoto possibile, nel vortice del vento nero, sentendo com’è grande un uomo quando è nella sua normale dimensione umana. E nel momento in cui partì si sentì investito […] in nome dell’autentico popolo d’Italia, ad opporsi in ogni modo al fascismo, a giudicare ed eseguire, a decidere militarmente e civilmente. Era inebriante tanta somma di potere, ma infinitamente più inebriante la coscienza dell’uso legittimo che ne avrebbe fatto. Ed anche fisicamente non era mai stato così uomo, piegava erculeo il vento e la terra» (Il partigiano Johnny, cap. IV). 



A dispetti di tanti altri autori del Dopoguerra, Fenoglio non fu retorico, ma soltanto epico. La sua vicenda «è un perpetuo alternarsi di battaglie, eventi rovinosi, fughe vertiginose e stasi felici… s’alternano sulla collina violenza e pace, fragori, flagelli di piogge, temporali, e silenzi improvvisi». Così il bravo Gian Luigi Beccaria (La guerra e gli asfodeli. Romanzo e vocazione epica in Beppe Fenoglio, Serra e Riva, Milano 1984, p. 64) che ha dedicato interessantissime pagine al «grande stile» dello scrittore di Alba.

A Fenoglio interessava l’uomo, non l’ideologia: attitudine che gli costerà l’ostracismo della stampa comunista, che lo marchiò a fuoco fin dal libro di esordio definito: “Un gioco di parole, e di brutte parole”. 

Secondo l’Unità si trattava infatti di una novità che diventava «impudenza» e «pubblicare e diffondere questo tipo di letteratura significa non solamente falsare la realtà, significa sovvertire i valori umani e distruggere quel senso di dirittura e onestà morale di cui la tradizione italiana può farsi vanto» (29 ottobre 1952). Questa stampa non poteva perdonare a Fenoglio di impiegare l’espressione «guerra civile» e neppure il fatto di riconoscere dignità anche al nemico e al nemico sconfitto. Esemplare, in proposito, un episodio di Una questione privata (cap. VII). Di fronte al plotone di esecuzione, un caporale fascista rifiuta l’ultima sigaretta per avere la gola completamente libera per gridare a squarciagola: «Viva il Duce!» (il particolare mi è stato sottolineato dal poeta Giampiero Neri). 

Calvino fu il primo a intuire la stoffa del giovane Fenoglio. Leggendo il dattiloscritto de La paga del sabato, gli scrisse: «Il tuo racconto mi ha preso dalle prime pagine e ho dovuto andar sino in fondo. Ti dico subito quel che ne penso: mi sembra che tu abbia delle qualità fortissime…» (Lettera del 2 novembre 1950, ora in Beppe Fenoglio, Lettere (1940-1962), a cura di Luca Bufano, Einaudi, Torino 2002). Per Fenoglio, Calvino sarebbe stato il naturale contatto con la casa editrice Einaudi, la sua «casa editrice natale», da cui poi si sarebbe allontanato per pubblicare con Garzanti Primavera di bellezza. I motivi della frattura furono i ritardi nei pagamenti dei diritti d’autore, alcune incomprensioni e, soprattutto, la sciagurata quarta di copertina scritta da Vittorini per La malora (33ª uscita dei Gettoni). 

In quel testo l’autore di Uomini e no offrì il destro a molti futuri detrattori di Fenoglio, scrivendo, tra l’altro: [questo libro] «ci conferma in un timore che abbiamo sul conto proprio dei più dotati tra questi giovani scrittori dal piglio moderno e dalla lingua facile. Il timore che, appena non trattino più di cose sperimentate personalmente, essi corrano il rischio di ritrovarsi al punto in cui erano, verso la fine dell’Ottocento, i provinciali del naturalismo, i Faldella, i Remigio Zena: con gli “spaccati” e le “fette” che ci davano della vita; con le storie che ci raccontavano, di ambienti e di condizioni, senza saper farne simbolo di storia universale…». 

Per Fenoglio questa sentenza fu una «frustata in faccia» e mai giudizio critico fu così fuori bersaglio. 

Fenoglio aveva scelto la guerra (e la «sua» terra, che come ricorda Giorgio Caproni, «rima» sempre con guerra) come periscopio per indagare l’uomo. Esattamente come Omero, di cui voleva imitare la capacità di contenere la realtà nella potenza di un verso. Lo testimonia, tra l’altro, un passo della splendida biografia curata Piero Negri Scaglione (Questioni private – Vita incompiuta di Beppe Fenoglio, Einaudi, Torino 2006, pp. 290, euro 21): «[Fenoglio] indica le cascine sulle colline intorno e dice: “Ma io lo so… che in tutte queste case potrebbe vivere, e forse ci vive, una famiglia come i Braida, o come i Rabino. Qui, là, là. Ma per raccontare tutto questo ci vorrebbe Omero, perché descriverebbe tutto in due soli versi. E dentro ci saremmo noi esattamente come siamo, e ci sarebbe la luna, ci sarebbero le Langhe, e una notte come questa» (p. 176). 

Della lingua di Fenoglio si è discusso a lungo, come si è battagliato sulle diverse stesure delle opere uscite postume e sulla loro cronologia. Resta insuperata l’opinione di Dante Isella, che con altri ha paragonato la sua forza espressiva a quella di Melville. Il partigiano Johnny è davvero il nostro Moby Dick. Le pareti d’acque e i mostri marini che sferzano il vascello del Pequod, in Fenoglio diventano i profili ondulati delle Langhe. La febbre ardente di Achab contro la balena bianca, in Fenoglio diventa sete di libertà e inesausta lotta contro il drago: «In questa lotta contro il Male, il nemico è naturalmente crudele, feroce, esecrabile, ma non mai indegno di rispetto. È l’angelo caduto, il Lucifero delle schiere infernali, che riesce spesso ad avere la meglio; ma l’eroe non dubita della vittoria finale. Combatterlo, ha valore in sé, conta come testimonianza al di là degli esiti contingenti. Molti devono morire, l’essenziale è che quella testimonianza non venga mai meno» (Dante Isella, “La lingua del partigiano Johnny”, in Beppe Fenoglio, Il partigiano Johnny, Einaudi, Torino 2005, p. 508).

La scrittura di Fenoglio fu profeticamente moderna: dura, tagliente, nervosa, sincopata. E soprattutto dantesca. Questo era il suo canone: «limpidità del dire, esattezza di termini. Nulla di pleonastico. Oggettività assoluta nel raccontare. Semplicità» (Piero Negri Scaglione, Questioni private, cit., p. 165). Per sfuggire alle pastoie della nostra tradizione troppo ingessata decise di redigere la prima stesura del Partigiano in inglese: «Ho pensato e ripensato e ho trovato. Questa volta li frego tutti. […] Questa volta scrivo prima di tutto in inglese e poi traduco in italiano. Otterrò una lingua nuova, originale, agile, veloce, secca» (Ivi, p. 190). 

Ma la scrittura di Fenoglio fu anche potentemente cinematografica. Del resto, era un grande appassionato del cinema americano, pensò da subito a riduzioni sul grande schermo del suo lavoro (cfr. la lettera a Giulio Questi del gennaio 1960 in cui presentava il «soggetto» di Una questione privata) e amava stringere amicizie con registi come l’allora giovanissimo Gianfranco Bettetini. Cinematografiche e potenti sono le ouverture con cui presenta i suoi personaggi. Valga per tutti lo straordinario ritratto del comandante Nord: «Aveva allora trent’anni scarsi, aveva cioè l’età a cui un ragazzo appena sviluppato come Johnny la maturità trentenne appare fulgida e lontana ma splendidamente concreta come un picco alpestre. L’uomo era così bello quale mai misura di bellezza aveva gratificato la virilità, ed era così maschio come mai la bellezza aveva tollerato d’esser maschia. Il suo aquilino profilo aveva quella giusta dose di sofficità da non renderlo aquilino, ed era quel profilo che quando scattò, later on, su un fondo oscuro, davanti a una triade di prigionieri fascisti, tutt’e tre crollarono ai piedi di Nord, in un parossismo di sgomento e di ammirazione. L’aurea proporzione del suo fisico si manifestava fin sotto la splendida uniforme, nella perfezione strutturale rivestita di giusta carne e muscolo. I suoi occhi erano azzurri (incredibile compimento di tutti i requisiti!), penetranti ma anche leggeri, svelanti come mai Nord prevaricasse col suo intenzionale fisico, la sua bocca pronta al più disarmato e meno ermetico dei sorrisi e risi…» (Il partigiano Johnny, cap. XIV). 

Fenoglio fu profetico anche per i nostri gusti dalle tinte fosche e forti (ma lo fu anche Eugenio Corti quando con il linguaggio allucinato de I più non ritornano descrisse l’anabasi della ritirata di Russia). Chi ama Cormac McCarthy o Ian McEwan, per esempio, non può non amare Fenoglio, che sa descrivere la crudeltà di una scheggia di mortaio che scucchiaia un occhio a un partigiano («una scheggia di mortaio gli aveva enucleato un occhio ed il globo, simile ad una noce di burro, gli scivolava lenta e gentile sulla guancia», Il partigiano Johnny, cap. XVI) come i propositi di vendetta di un combattente preoccupato per l’amico prigioniero: “Guardate, − diceva, − guardate tutti quel che farò se ammazzano Giorgio. […] Guardate. Il primo che beccherò… mi voglio lavar le mani nel suo sangue. Così −. E si curvava sull’immaginario catino e immergeva le mani e poi se le strofinava con una cura e una morbidità spaventevole. – Così. E non solo le mani. Ma anche le braccia voglio lavarmi nel suo sangue −. E ripeteva l’operazione di prima sull’avambraccio e sul lacerto”. (Una questione privata, cap. VI). 

Per chi volesse conoscere i retroscena del cantiere dello scrittore e l’ambiente piemontese in cui visse, un vademecum essenziale resta Casa Fenoglio (Sellerio, Palermo 1995) scritto dalla sorella Marisa (narratrice di vaglia). Ecco un cammeo notturno del nostro “diamante nero”: “Certe sere tornava a casa prima del solito, visibilmente gravido di pensieri da affidare alla carta. Passava veloce accanto a mia madre e a me che, sedute in cucina sul tavolo, proprio sotto la lampada, eravamo intente a qualche lavoro a maglia. Si ritirava subito nella camera della scala e attaccava a lavorare. Noi dall’alto percepivamo quei tre segni inconfondibili della sua presenza in casa: il fumo delle sigarette, la tosse, e il battere dei tasti della macchina da scrivere. Scriveva ininterrottamente per ore e nel cuore della notte quelle boccate avide e appagate di fumatore impenitente, più silenziose della tosse ma scandite come il battere della macchina da scrivere, mi davano intera la sensazione della sua concentrazione, ma anche della sua infinita lontananza da casa nostra. A un’ora imprecisata della notte, che io quasi mai percepivo da sveglia, veniva a dormire nella camera che a quel tempo dividevo con lui. Quell’altra stanza, dove aveva lavorato, finalmente muta, restava fino al mattino piena di fumo e di quell’odore acre che avevano gli inchiostri di una volta, i suoi fogli sparsi sul tavolo, in quell’apparente disordine che è invece l’ordine imperscrutabile del momento creativo… (pp. 120-129).

Naturalmente Fenoglio non è un autore facile. Però sarebbe giusto proporlo finalmente con piena indiscussa convinzione nei nostri licei. Da dove partire? Forse con il «passo breve» di Una questione privata: racconto esemplare in cui amore e guerra s’intrecciano a perfezione, ma per invogliare i giovani lettori (che poco sapranno di guerra partigiana & C.) si può anche far ricorso alle immagini. Il regista Guido Chiesa, per esempio, ha reso omaggi memorabili a Fenoglio: nel 1998 con l’omonimo documentario Una questione privata (recuperabile su Youtube, frutto di 10 mesi di lavoro e quasi 200 interviste…) e soprattutto con il film Il partigiano Johnny (2000) che brilla per fedeltà e dedizione rispetto al romanzo di partenza. Certo, i programmi non lasciano spazio a nuovi inserimenti al «canone». Beh, forse si potrebbe ridurre la quota di partecipazione a qualcun altro. Personalmente assottiglierei qualcosa alle pagine e alle ore (anche se poche) dedicate a Moravia, a Vittorini e, perché no, allo stesso Calvino…