Chiunque non abbia opposto un rifiuto agli avvenimenti della “settimana romana” iniziata con le speculazioni sul nuovo Papa e sulle possibili coalizioni governative per l’Italia, e conclusasi con l’inaugurazione del Papato di Fancesco e l’incarico governativo a Bersani, ha potuto trarre una lezione importante: non c’è un passaggio diretto che porti dalla protesta alla riforma.
Le reazioni nervose di Grillo a qualsiasi commistione con i partiti, con o senza la “elle”, sono soltanto la testimonianza più palese: una protesta che perde l’avversario dialettico smette di essere tale. L’avversario della protesta di Grillo è, appunto, la politica istituzionale. Per questo il M5S non si può trovare in una coalizione con altri partiti e contribuire ad una riforma di “larghe intese”.
Ora, in linea di principio le riforme necessarie che la politica italiana deve urgentemente affrontare potrebbero realizzarsi anche senza Grillo con la coalizione “vincitrice”. Ma nelle sue mosse di questa settimana, questa coalizione di fatto ha smentito di possedere un autentico spirito di riforma: escludendo da un lato, a priori, una “grande coalizione”, nonché il ritorno alle urne, e cercando dall’altro lato non solo un compromesso alquanto dubbio con il M5S che non sa ancora che cosa è la “politica come professione” (Max Weber), ma anche un appoggio esterno della Lega. In tutto questo, Bersani dimostra di intendere il potere politico in questo momento come una sua prerogativa personale, da realizzare con tutti i mezzi.
Questa strategia, troppo palese dopo l’assegnazione delle due cariche di presidenza alla Camera e al Senato, non poteva che essere radicalmente rifiutata dallo spirito di protesta che, fin quando rimane in opposizione esterna, può svolgere senz’altro una funzione risanatrice nel sistema istituzionale. Una volta che si trova però inserito in esso, deve dimostrare la capacità di trasformarsi in spirito di riforma, per poter svolgere una funzione politica costruttiva.
Questa metamorfosi che nel campo politico, almeno in questo momento, sembra impossibile, è il “miracolo” che il mondo cattolico spera che avvenga con il nuovo Papa. Ancora è presto, certamente. Ma la sua biografia, la scelta del nome, i suoi primi gesti e persino la sua appartenza alla Compagnia di Gesù disegnano, per lo meno, questa possibilità.
Infatti, da un lato, nella scelta del nome Francesco tanti cattolici vedono rappresentati i loro sentimenti di protesta a quella Chiesa istituzionale che con gli scandali di pedofilia, con i giochi di potere curiali, e non per ultimo con Vatileaks ha perso credibilità. In questo senso, l’entusiasmo di questa settimana è espressione della speranza che la protesta si traduca in spirito di riforma.
L’attesa, infatti, è che Papa Francesco non consegnerà il suo messaggio di una Chiesa povera ad un romanticismo sociale, tralasciando le riforme necessarie. Proprio per il suo passato da provinciale dei Gesuiti e da arcivescovo di Buenos Aires, risulta infatti anche un uomo dell’istituzione. E per questo sembra importante ricordare che la scelta del nome lo ricollega anche a Francesco Saverio che fu uno dei compagni di Ignazio di Loyola quando fondò l’ordine dei Gesuiti. Il primo Papa gesuita si rifà quindi all’ispirazione originale della sua “compagnia” che molto prima di diventare simbolo del potere e della gerarchia era l’ordine della “riforma cattolica”. Dopo che il protestantesimo ha reso palese le gravi inadempienze istituzionali della Chiesa cattolica, soltanto la “riforma cattolica” del 600, promossa soprattutto dai Gesuiti, ha potuto salvare la Chiesa nella sua istituzionalità. Ai “protestanti” la Chiesa rispondeva quindi con riforme interne, sulla base di una “larga intesa”, che fu il Concilio di Trento, il quale mise fine ad una serie di Papi che interpretavano il loro ruolo nella chiave di un diritto personale anziché nello spirito del servizio (pensiamo ad Alessandro VI, Giulio II, Leone X, solo per ricordare i nomi più “famosi”).
Quello spirito autentico di riforma, percepito nel nuovo Papa, è lo stesso che manca appunto a palazzo Montecitorio. Vediamo tanta protesta, sì, ma nessuna riforma. Perciò vedere alcuni onorevoli arrivare, in questa settimana, in bicicletta o sentire Grillo sottolineare le somiglianze del suo movimento con quello di San Francesco (sottolineando addirittura di averlo fondato un 4 ottobre, quello del 2009), non è altro che l’apoteosi del populismo e la vera ironia di una classe politica che ha perso la necessaria serietà per riforme autentiche.
Queste riforme, però, possono realizzarsi soltanto con il senso per il bene comune che in questo momento esige un governo stabile, basato su larghe intese. Ove questo fine non dovesse prospettarsi con il parlamento recentemente eletto, non ci sarà altra opzione che quella di tornare alle urne, nella speranza che si costituisca una base parlamentare larga per poter effettuare le riforme necessarie. Ma si può ragionevolmente nutrire questa speranza? Considerando che, di fatto, nessuno si è potuto sottrarre agli avvenimenti di questi ultime settimane a Roma, e ad imparare la lezione della differenza tra “protesta” e “riforma”, questa speranza non sembra fuori portata di mano.