In un suo celebre saggio, T.S. Eliot definisce la mente poetante come costantemente intenta a «costituire nuove aggregazioni». A questa caratteristica, a questo scarto tra la mente del poeta e quella che non senza un filo di snobismo chiama mente ordinaria, egli fa risalire un particolare modo di procedere del linguaggio poetico di cui individua in Dante il maestro, e cioè il linguaggio dell’allegoria, il tentativo del poeta di far vedere ciò che vede lui.
È l’antico gioco della similitudine e della metafora, di quella poesia elementare con cui tutti noi, menti più o meno ordinarie, distrattamente ci confrontiamo nel nostro parlare quotidiano. La similitudine, il dire «questo è come quello», «questo sembra, è simile a quello» è il primo atto cosciente del poeta: non ci può essere poesia senza paragone, anche se questo paragone non arrivasse mai a imprimersi sulla carta ma restasse tra le possibilità inespresse.
Se queste sono le premesse, è facile intuire come la pratica poetica di Eliot sia fortemente fondata su un lavoro fedele di artigianato. Intendiamoci: Eliot crede fortemente nell’ispirazione, nel demone poetico, e non vi è traccia in lui dell’idea che la poesia sia mera manipolazione o gioco linguistico, né di una totale autonomia dell’atto artistico; è esemplare in tal senso la sua polemica con Valéry sulla poesia filosofica. Tuttavia, è chiara per lui la necessità di una responsabilità umana al dato ispirato. La poesia è insomma arte nel senso più laico del termine: è progetto, tentativo, costruzione, lima, adattamento, scoperta nell’opera del significato che l’opera intende rappresentare, come racconta il IX Coro della Rocca.
Da questo approccio deriva la storia letteraria ed editoriale di molti testi eliotiani, tra cui Ash-Wednesday, la cui stesura accompagna la definitiva adesione di Eliot alla chiesa anglicana. Mentre viene scritto, infatti, Ash-Wednesday non sa che diventerà un’unica, lunga poesia in sei sezioni, né tantomeno lo sa il suo autore. Siamo negli anni che vanno dal 1927 al 1930 ed Eliot – che ha appena lasciato il suo impiego presso la banca dei Lloyd’s per andare a lavorare presso l’editore Faber & Faber – lavora a diverse poesie brevi, tutte focalizzate, in forme diverse, sul tema della conversione. Alcune di queste poesie verranno pubblicate singolarmente nella collana della Faber & Faber intitolata Ariel Poems; altre – come era già accaduto per The Hollow Men – diventano cammin facendo brani di quella nuova poesia lunga in frammenti che sarà Ash-Wednesday, dapprima venendo pubblicate su rivista tra il 1927 e il 1929, quindi trovando la propria posizione definitiva nel corpo del poemetto che viene pubblicato nel 1930.
Il primo frammento ci mostra subito un esempio della genialità furtiva di Eliot: rubare così platealmente ai dead poets da potersi permettere di fargli dire altro. Così al Cavalcanti della Ballatetta che si strugge di non poter tornare dal suo esilio, fa qui controcanto una voce anch’essa in esilio, ma che anziché struggersi si interroga un filo annoiata e scettica sul perché dovrebbe desiderare di tornare ai luoghi usati, a quelle forme del desiderio che tanto l’hanno affascinata ma che non sanno ormai più accenderne altro che la noia.
Poiché non spero più di ritornare,
poiché non spero –
Poiché non spero più di ritornare
desiderando d’uno il fine e d’uno il dono
non voglio più sforzarmi a queste cose
(perché dovrebbe l’aquila attempata dispiegare le ali)
perché dovrei rimpiangere
il potere disvanito del consueto regno?
(Mercoledì delle Ceneri, I)
È a queste forme che la voce esiliata dispera, e in fondo non vuole, tornare. A Eliot, alla voce che in questo frammento ne porta la figura, non interessa più né l’oggetto né la forma di ciò che lo interessava prima. Non è che l’amore per le cose svanisca, anzi. È la loro capacità attrattiva che non tiene. Quello del «consueto regno» è un «potere disvanito», non volontariamente abbandonato: è la noia che corrode tutto, anche le cose più belle. Diversamente dal primo Eliot, tuttavia, e come già nel finale di The Hollow Men, quella noia che del temperamento eliotiano e delle sue maschere poetiche è una costante fa emergere il desiderio della salvezza. La percezione, insomma, che le cose amate e l’amore stesso abbiano una possibilità di essere salvate per non morire sfibrate dalla corruzione e dallo sfinimento.
Così quella preghiera spezzata che in The Hollow Men arriva al termine di un percorso tormentato, nel Mercoledì delle Ceneri accompagna la voce e il pensiero poetanti fin dall’inizio. Una preghiera che tuttavia è pur sempre una preghiera spezzata, o meglio, ancora informe, e che perciò nel suo essere pronunciata domanda di essere corroborata, di mostrare anzitutto a chi la pronuncia il proprio senso e la propria efficacia.
Questa è per Eliot la conversione: inginocchiarsi, come dirà nell’ultimo dei suoi quartetti, «dove la preghiera ha funzionato», tornare cioè costantemente a interrogare quel frammento di tempo e spazio in cui il divino si è rivelato, in cui ha mostrato la realtà della sua incarnazione. Una realtà che nel poemetto è assunta dalle tre donne che accompagnano il cammino dell’io parlante: la Lady della seconda sezione e le figure che richiamano Matelda e Beatrice nella quarta. Sono loro, e inscindibilmente il rapporto con loro, il luogo in cui, avendo la preghiera funzionato, la voce del soggetto torna a pregare. Ed è in questo rapporto che si snoda la lotta tra il bene riconosciuto a cui il desiderio inizia a tendere e le immagini del passato.
La lotta tra il vero bene e le immagini del bene – tra il vero desiderio e le immagini del desiderio – è un tema che lavora profondamente l’Eliot di questi anni. Nel poemetto, la narrazione di questa lotta entra in scena nel terzo frammento, in cui l’io narrante s’incammina per la scala della salvezza ed è tentato dalle immagini del passato, che gli si fanno incontro con il loro «volto ingannatore di speranza e disperanza». Ma se il moto iniziale della volontà appare sufficiente a superare le prime tentazioni, l’ultima rampa della scala le vede farsi via via più dolci e melliflue, sì che «la mente va e s’arresta sulla terza scala, / più debole, più debole». Ed è dinnanzi a questa debolezza che s’insinua la percezione di quella «forza ch’è più forte di speranza e disperanza» e che la conversione, da decisione etica, si scioglie in decisione morale, in abbandono a una presenza altra da sé e dalle proprie immagini di bene e male, di santità e rettezza: «Signore, non son degno / ma di’ soltanto una parola» (Mercoledì delle ceneri, III).
Molto si parla, quando si parla di Eliot e della sua conversione, di ritorno all’ordine, di adesione culturale a un’idea conservatrice, financo di resa di una ragione incapace di pacificarsi altrimenti. In un certo senso tutte queste interpretazioni sono vere, ma superficiali. La conversione di Eliot è sì un ritorno all’ordine, ma è ben altro rispetto al «mettere la testa a posto»; del pari, se c’è una resa della ragione, questa resa è – con le parole di Jean Guitton – la sua sottomissione all’esperienza, l’esperienza di un Altro da sé chiaramente percepito e tuttavia impossibile a comprendersi. Una resa, quindi, che non chiude la porta al mistero iscrivendolo nel riposo del dogma, ma che al contrario in questo mistero, attraverso l’adesione al dogma, accetta di farsi trascinare.
La preghiera che chiude la terza sezione e lo sviluppo delle tre successive mostrano chiaramente questo scarto tra una conversione intesa come adesione a un sistema di pensiero – ciò che Eliot aveva già rifiutato abbandonando gli studi filosofici – e la conversione a una presenza incarnata qui e ora, di cui non si può percepire altro che i tratti d’ombra con cui ci viene incontro. «Nessun luogo di grazia per chi evita il volto» dice Eliot, «nessun tempo di gioia per chi attraversa il rumore e nega la voce» (Mercoledì delle ceneri, III). Si mostra in questi versi l’esperienza eliotiana della salvezza: non un punto d’arrivo, ma un luogo carnale – la Chiesa – che è al contempo meta e strada, compagnia definitiva offerta da Dio all’uomo per ricondurlo a se stesso, a quell’impossibile comunione che ne costituisce il desiderio più profondo e negletto, il ritorno anelato da quell’esilio di sé che è il suo passaggio terreno.
Sorella benedetta, madre santa, spirito della fonte e del giardino,
non sopportare che ci irridiamo con la falsità
insegnaci a curarci a non curarci,
insegnaci la quiete
anche tra queste rocce,
nella Sua volontà la nostra pace
e anche tra queste rocce
sorella, madre
e spirito del fiume, spirito del mare,
non sopportare che io sia separato
e lascia che il mio grido giunga a Te.
(Mercoledì delle ceneri, VI)
E’ in uscita, a breve, T.S. Eliot, “Mercoledì delle Ceneri”, traduzione e introduzione a cura di Daniele Gigli. Editore Locanda del Re Pescatore.