Eccolo. Lo hanno innalzato. Posso guardarlo adesso, fino alla frattura delle ossa.
Alla mia sinistra, più alto di tutta la testa: con una corona piantata, e una breve insegna.
Hanno scritto i soldati e ridevano; vorrei saper leggere, vorrei capire il motivo vero di tanta crudele condanna: deve essere una cosa seria, una cosa sola, terribile, di poche lettere.
Io ho un elenco lungo e anche quell’altro lì a fianco, quello che si contorce e urla e bestemmia la sua morte e chi lo ha condannato, il dannato assassino che ben conosciamo. Il truffatore, l’esattore, il malnato che è stato appeso con soddisfazione: ma non altrettanto torturato.
Lui invece deve aver fatto qualcosa di grosso e silenzioso. Non lo sa nessuno.
Nemmeno quelle quattro lettere sbilenche che si vergognano di esistere.
Deve essere un uomo terribile.
Da come lo hanno conciato. Fradicio di sangue.
E non si lamenta affatto.
Chi si lamenta a morte sono le donne. Ne ha ai piedi un mucchio, affrante e bellissime.
Deve essere stato un grande amante.
Deve essere soddisfatto di tutto l’amore che ha piantato: quella rossa è un portento, è un uragano, distrutta e affascinante come un tramonto infuocato. Più si batte il petto e lancia fiamme dai capelli, più si incendia e più diventa bella. Piange, il viso inondato, piena di mare e di clamore, piena, gravida di tanto dolore. Una marea, la sua, che arriva a toccare le radici del legno e tenta lanciandosi di lambirgli i piedi, i chiodi, di lavarli col suo sale, con le sue dita bianchissime, e poi si ritira pazza fin dentro al suo seno, nel petto dell’oceano sotto i capelli d’alga rugginosa.
L’altra, la meraviglia del silenzio. Quella biancaenera, pelle d’alabastro e ebano sotto il velo, che è sicuramente puro indaco, lei che non cammina, sta. Madre?
Sua madre? Dio del coraggio, come può stare qui sotto.
Lui la ha chiamata, insieme a suo fratello biondo, ma non ci credo, sarà un cugino alla lontana, o figlio di un altro padre.
Perché quella donna è troppo bella. Luce di stella, galassia lattea e ventosa, il suo respiro muove le nuvole nel cielo e gli uccelli le si rifugiano negli occhi. Lei porta la tormenta.
Come le gonfia il velo, arioso: un golfo, un seno pronto a essere sicuro.
Lì vorrei stare; la guardo e la desidero, come un bambino: perché non posso riessere un bambino, tornare indietro, ricominciare tutto, sono certo che se lei fosse la mia di mamma non avrei fatto ciò che ho fatto, non avrei tanto peccato, sono sicuro che lei mi perdonerebbe il primo sbaglio.
Ma quello è il figlio. Lui.
Tanto sfigurato che confonde la somiglianza. La giustezza.
È tutto sangue, e e lei lo sa. Lo sente, nel suo ventre.
Sangue dato, appeso come un frutto rosso e puro. Addentato.
Lei annuisce: piange e dice sì, si vede bene è chiaro a tutto il mondo.
Gli sta dando il permesso di farlo.
È lei che porta il vento, è lei che fa venir le nuvole, il cielo è denso come un lamento, agonizza sopra la mia testa. Sento che piange, mi bagnano gocce inquiete, sabbiose. Colano sulla mia fronte dentro gli occhi, sembra che pianga anch’io. Forse.
Era partito prima. Era già fuori, nel cortile romano, addosso un drappo rosso porpora preziosa, addosso dappertutto scudisciate, le spellature del flagello.
L’hanno fatto partire, caricato del suo legno, noi due dietro. Ma non è durato molto. Era già sfinito.
All’inizio mi ha fatto tanta pena. Ma poi è caduto. Una, due, tre volte. Ci ritardava nella via, la croce pesa. Meglio arrivare presto, farla finita.
Hanno chiamato un contadino, grosso, innocente, con un bambino al fianco. Doveva sostenere il legno e il figlio, sosteneva eterno tutto il tempo camminando fino al Cranio.
Il suo ragazzo era stravolto, gli hanno restituito un padre nuovo, sconosciuto: ricoperto di sangue, contagiato di dolore, protettore e eroe di un condannato. Quello che ha portato il rifiuto del mondo, incolpevole, sereno, generoso. Un padre che sporcandosi è ritornato puro.
Ogni volta che cadeva, il figlio, la madre era accoltellata. Impallidiva.
Sono sicuro, l’ho visto. Quando lo ho scavalcato. Il soldato mi ha frustato e io ho alzato il piede e sono andato oltre, lasciandolo per terra, faccia a terra, umiliato.
È in quel momento che mi ha guardato.
Dal basso in alto. Un verme strisciante, non diverso da me, pensavo. Invece no.
Se la frustata del soldato ha fatto male, lui mi ha incenerito. Ho sentito la lama dei suoi occhi nel costato. Ho sentito dentro, che mi rompevo.
Non sono più riuscito a rivederlo, è rimasto indietro, abbiamo fatto in fretta noi davanti; spogliati degli stracci puzzolenti di prigione e di peccato, stesi, piantati, appesi. I chiodi mi hanno perforato il cervello. L’ebbrezza dell’altezza, se lascio andare le braccia mi sento soffocare. Questa è la croce: o sopporti di soffrire i chiodi, o soffochi e muori. Quando il dolore soverchierà la forza di resistergli, affogherò nell’acqua dei polmoni. Come lui, uguale.
Ha le gocce di sangue che gli riempiono gli occhi, colano come un ruscello allegro dalle sorgenti di una spina. Guardami ancora, guardami come prima.
Ora; stai per finire, vedo il tuo petto muoversi convulso, sento il tuo rantolo.
Hai parlato con quelli lì sotto, parla con me adesso.
L’altro ti insulta. Il farabutto ti sfida. Lo conosco, è pieno di odio e di delusione. Anch’io lo sono stato. Fino a quando mi hai guardato. Come in uno specchio ho visto il mio peccato.
E poi ho visto Te. Uomo addolorato.
Girati, guardami ti prego, perpiacere… dammi ancora, una volta sola, il dono del Tuo sguardo.
Figlio di un Dio del perdono. Lo chiedo.
“Oggi sarai con me…”
Lo hai detto.
Capisco; Ti sei fatto inchiodare per questo.