Le parole cristiane non sono solo parole: esse sono dei gesti. Non servono soltanto per indicare o nominare qualcosa, ma hanno un loro peso specifico, quello dell’esperienza e della vita da cui nascono e che al tempo stesso portano in sé. Da quando il “Verbum” – ciò che siamo soliti tradurre con “parola”, appunto, ma che è anche il senso, il principio, il “logos” – si è fatto carne, vita umana, le parole umane non sono più lasciate alla loro volatilità (verba volant…), ma continuano a cercare il loro centro, il loro peso, la loro vita. 



Per questo le nostre parole vanno “ascoltate”: esse non sono termini neutri, ma hanno una loro storia, perché ogni volta esse vengono segnate e impregnate dal tono, dall’accento di chi le dice. E quando poi le leggiamo, come segni scritti su una pagina, la loro stessa scrittura non è mai indifferente o semplicemente convenzionale, ma porta inscritta in sé la vibrazione cosciente, la scoperta di chi le ha pronunciate, vivendole. E questo non vale mai una volta per tutte, perché ogni volta che qualcuno, dicendo una parola, ne scopre o riscopre il significato vero per sé, quella parola in qualche modo assume nuovamente la sua carne.



È quello che mi è apparso evidente durante la Via crucis di Papa Francesco al Colosseo, questo Venerdì santo. Io penso che non potrò più leggere o ridire due parole senza riascoltare l’accento di verità con cui esse sono stare nuovamente pronunciate – o meglio, sono state pronunciate come nuove – in quella notte romana. E non si tratta di due parole qualsiasi, ma di gesti decisivi per la nostra esperienza, come “amore” e “giudizio”.  

Ha detto Papa Francesco, immedesimandoci con il drammatico mistero della passione di Cristo per gli uomini, che spesso a noi sembra che «Dio non risponda al male, che rimanga in silenzio». Ma in realtà «Dio ha parlato, ha risposto, e la sua risposta è la Croce di Cristo: una Parola che è amore, misericordia, perdono». Ma qui accade qualcosa che ci costringe a mettere in discussione il nostro uso abituale di queste parole, quando il Papa continua affermando che questa risposta di Cristo è «anche giudizio: Dio ci giudica amandoci». Quante volte invece per noi tra queste due esperienze vige una sorta di estraneità, se non un’ultima, insuperabile contraddizione? 



Da un lato l’amore inteso come un sentimento assoluto, che compatisce e abbraccia senza vedere (l’amore è “cieco”, si dice), cioè che si rifiuta al giudizio. Cosa importa di quello che sei e che sei chiamato ad essere? Nell’amore l’unica cosa importante sarebbe dirti che va bene così, che la tua misura è il tuo destino, che in fondo non c’è niente di più grande di te e di me. 

Certo, per chi ama si tratta pur sempre di uscire da sé, ma solo in quanto si rinuncia a giudicare, per accettare la misura dell’altro e in qualche modo identificarsi o rinchiudersi in essa. L’accoglienza dell’altro sarebbe dell’ordine della “carità”, opposta all’ordine della “verità”. E difatti il giudicare, dall’altro lato, viene abitualmente inteso come un condannare che ha rinunciato all’amore e alla compassione, come un misurare la misura dell’altro senza accoglierla incondizionatamente. Insomma la freddezza del vero contro il calore del buono.

Nell’esperienza descritta da Papa Francesco l’amore è invece, in quanto tale, giudizio; e il giudizio trova il suo criterio nell’accogliere l’amore come la verità della vita: «Se accolgo il suo amore sono salvato, se lo rifiuto sono condannato, non da Lui, ma da me stesso, perché Dio non condanna, Lui solo ama e salva».
La verità non è un precetto che qualcuno ci possa imporre, ma è un giudizio che noi stessi, inevitabilmente, riconosciamo perché esso viene attestato, testimoniato, starei per dire gridato dalla nostra stessa esperienza. Ciascuno di noi avverte quando la sua vita non è “vera”, anche coloro che saranno sempre restii ad ammettere che vi sia una “verità” di sé stessi. Questo è il punto più acceso della sfida: questa è appunto la “croce” di Cristo, e cioè che la verità di sé sta nell’accogliere l’amore di un altro che è più grande di me – il Padre –, cioè accogliere il fatto di essere voluti e salvati, non da se stessi, ma da un Altro.

 Questo non ha a che vedere in primo luogo con un traguardo ultraterreno (se fosse solo questo, che importerebbe in fondo rispetto alla vita), ma con la possibilità di essere liberi, ora, guardando in faccia tutto il male di cui siamo capaci e l’angustia invincibile della finitezza. Si tratta di quella libertà che tutti abbiamo sperimentato quando qualcuno ci ha perdonato, facendoci appunto giudicare cosa è vero e reale per noi. 

Forse questo permette di immedesimarsi ancora di più con la commovente insistenza di questo Papa su altre due parole: “povertà” e “pace”. Come ha detto nell’incontro con il Corpo diplomatico il 22 marzo, «sull’esempio di Francesco d’Assisi la Chiesa ha sempre cercato di avere cura, di custodire, in ogni angolo della Terra, chi soffre per l’indigenza», come «i malati, gli orfani, i senzatetto e tutti coloro che sono emarginati. (…) Ma c’è anche un’altra povertà! È la povertà spirituale dei nostri giorni, che riguarda gravemente anche i Paesi considerati più ricchi». Insieme alla povertà dell’emarginazione socio-economica, anche la povertà dell’omologazione nichilista, lì dove domina quella «“dittatura del relativismo”, che lascia ognuno come misura di se stesso e mette in pericolo la convivenza tra gli uomini». 

Entrambe queste povertà minacciano la pace, perché «non vi è vera pace senza verità! Non vi può essere pace vera se ciascuno è la misura di se stesso, se ciascuno può rivendicare sempre e solo il proprio diritto, senza curarsi allo stesso tempo del bene degli altri, di tutti, a partire dalla natura che accomuna ogni essere umano su questa terra».
Nella nostra misura possiamo scoprire qualcosa di incommensurabile, che è ben più di un nostro sentimento soggettivo, perché è come la vera stoffa di cui siamo fatti; e insieme è ben più di un ordine oggettivo e impersonale, perché è una scoperta che ciascuno è chiamato a fare nella sua esperienza amorosa. In fondo si è cristiani per questo: perché si è scoperto che la nostra misura non è solo una barriera che chiude, ma un varco per accorgerci e per accogliere Colui che ci ha fatti e continua a ri-farci con la sua misericordia.