Una tradizione di origine antica ne attribuisce la paternità al maestro della poesia religiosa tardomedievale di area italiana: Iacopone da Todi. L’opera sarebbe da collocare nella fase estrema della sua attività di autore, dopo la liberazione dalla scomunica e la fine della reclusione a cui lo aveva condannato Bonifacio VIII, a seguito della protesta dei francescani spirituali, sostenuti dalla potente famiglia dei Colonna, contro il successore del papa dimissionario Celestino V (dunque tra la fine del 1303 e la data della morte, il 25 dicembre 1306).



In realtà, l’ipotesi non è suffragata da prove certe: riflette semmai il prestigio che Iacopone da subito assunse come inventore di testi lirici messi a profitto della straordinaria fioritura della musica religiosa a cui si assisteva allora in tutta l’Europa cristiana, a cominciare dal suo cuore italiano e in senso stretto romano. Già nella fase medievale si avanzarono congetture di segno molto diverso, che al posto del capofila a cui si fa risalire la nascita del lussureggiante patrimonio delle laudi in lingua volgare chiamavano in  causa altri personaggi tra i più illustri della cultura ecclesiastica e del governo centrale della Chiesa di inizio secondo millennio (da san Bernardo e Innocenzo III fino a san Bonaventura e a Giovanni XXII), o che in qualche caso risalivano ancora più arditamente all’indietro nel tempo, fissandosi su un nome di assoluto rilievo come quello di papa Gregorio Magno (fine VI secolo).



Quel che è indiscutibile, è che lo Stabat mater non si trova riprodotto in codici manoscritti anteriori al Trecento: il secolo che vide la fine dell’entusiasmante avventura umana di Iacopone. Da quella data, inizia la prodigiosa esplosione della fortuna del compianto di Maria ai piedi della croce. Il testo si diffonde in tutti i paesi della cristianità. Si apre un varco nei libri liturgici dell’ordine francescano e più tardi del rito romano universale, a fianco di pochissime altre sequenze nate dal culto del popolo dei fedeli e inglobate nella preghiera comune del corpo dei cristiani. Comincia prestissimo a essere tradotto nei diversi idiomi nazionali, come lo spagnolo, il portoghese, l’illirico, il tedesco, ovviamente l’italiano. Con l’invenzione della stampa, la marcia di espansione guadagna nuova, incredibile energia.



Ma non c’era nemmeno la necessità di migrare nelle parlate moderne d’uso letterario perché la devota preghiera scaturita dal realismo religioso dell’ultimo Medioevo conquistasse una posizione di primato. Con il suo linguaggio diretto e coinvolgente, infarcito di parole latine che potevano essere intese anche da chi non aveva frequentato le scuole di grammatica, si offriva a una comprensione capace di conquistare di slancio quanti ne venivano raggiunti. Lo Stabat mater non era stato ideato per essere letto individualmente: era la materia di un atto collettivo, che incitava a modularsi sulle linee melodiche del canto popolare e della musica di chiesa per dare vita a un evento in cui si raccoglieva una intera comunità di persone.

Nei chiostri dei conventi, sulle piazze dove confluivano i cortei della Settimana Santa, nelle aule di preghiera delle confraternite dei laici, la litania su base ternaria delle dieci strofe di due membri pari, impostate su uno schema metrico che si ripete dall’inizio alla fine come una traiettoria obbligata da seguire, trascinava gli esecutori nell’esercizio di una ripetizione che finiva per sedimentarsi nella memoria. A furia di ascoltare, per effetto di continua imitazione, ci si impadroniva della lettera del testo, piegandolo al proprio consumo. Appropriandosene, era facile che il testo venisse anche ampliato, adattato, rielaborato. Ritrovava sempre nuova vita, senza mai abbandonare la struttura di partenza secondo cui era stato codificato. Il ritmo generale, le rime baciate, il gioco delle assonanze, la musicalità intrinseca del registro poetico erano al servizio di una immedesimazione che fece dello Stabat mater il tesoro di un patrimonio di cultura spartito tra una élite ristretta di specialisti di erudizione teologica e le vaste masse a cui il clero si rivolgeva dai pulpiti delle chiese, chiamandole a raccolta nello spazio del rituale liturgico.

Lo si vide chiaramente già intorno al 1399, quando i movimenti penitenziali che contagiarono i centri urbani del mondo tedesco, della Provenza, della Liguria e dell’area toscana spinsero i fedeli in abito bianco, con la croce rossa disegnata sul cappuccio che ne copriva il capo, a spostarsi in processione da una città all’altra, flagellandosi in segno di adesione alle sofferenze del Cristo della passione, pregando, invocando misericordia e pace per porre fine ai conflitti che laceravano la società e meritarsi il perdono delle colpe. In Italia, i lunghi cortei di penitenti esaltavano l’intensità del legame con i patimenti inflitti al corpo piagato di Cristo proprio replicando in continuazione il canto, divenuto ormai largamente familiare, dello Stabat mater.

Se corale era stata la genesi da cui il testo era emerso prendendo la sua forma compiuta, quando uno o più autori, che non possiamo definire con assoluta precisione, ordinarono il dettato di una scrittura lirica che rifondeva in sé spunti, modelli e formulari di linguaggio ereditati da uno stile di preghiera collettiva fedele ai suoi nuclei più antichi (da Giovanni 19, 25, è suggerita la scena drammatica evocata nel potente verso di attacco: “Stabant autem iuxta crucem Iesu mater eius et soror matris eius…”), corali e massicciamente partecipati rimasero il decollo di un successo strepitoso, intrecciato alla disseminazione del canto laudistico in lingua volgare, così come la lunga fortuna moderna del repertorio che accolse al suo interno, in piena osmosi, canto volgare e nuovo canto latino. 

Lo Stabat mater continuò a circolare senza interruzioni. Rimase al centro degli usi popolari, legati soprattutto al culto della Passione di Cristo e alle celebrazioni della Settimana Santa. La suggestione che se ne sprigionava, a contorno del culto liturgico ufficiale della Chiesa, spiega come mai una quantità esorbitante di musicisti al servizio della musica sacra più colta e raffinata, dal Rinascimento fino ai giorni nostri, abbiano voluto cimentarsi nella ricreazione in chiave polifonica dell’antico canto devozionale, con esiti, in molti casi, di pungente efficacia: Palestrina, Scarlatti, Vivaldi, il geniale Pergolesi all’inizio del Settecento, in età romantica Rossini, Liszt, Dvorák, Verdi, sono alcuni dei nomi che si impongono in primo piano.

Per spiegare questa inossidabile fortuna che si perpetua da sette secoli non ci si può che arrendere all’evidenza. Lo Stabat mater continua a parlare al cuore di chi lo ascolta e lo rimette ogni volta in scena per la ricchezza del contenuto a cui rinvia con lo squarcio delle sue nude parole. Qui si viene messi semplicemente di fronte alla realtà oggettiva dell’evento supremo da cui è stata messa in moto la salvezza aperta all’uomo mendicante, che riconosce di non potersi guarire da sé. Lo strazio di una madre ai piedi del patibolo su cui vede morire il figlio teneramente amato è la porta entrando nella quale si è sollecitati a stringere il legame totale di sé con un sacrificio che non si è concluso una volta per tutte. L’offerta del Figlio di Dio che si immola “pro peccatis suae gentis” (per i nostri, in cima a tutti gli altri) chiama a reagire, a entrare in un rapporto che riattualizza per noi, oggi, quello spargimento di sangue versato che continua a scorrere, ora.

Tutto è ripresentato come se continuasse a svolgersi sotto i nostri occhi. Fissare lo sguardo su quello che misteriosamente riaccade trascina dentro il flusso di una memoria resa incisiva e operante: che “si fa” nel momento in cui ci assimila a sé. Per questo la seconda metà esatta dello Stabat mater, dalla sesta strofa in avanti, sposta il centro della visione dalla scena cruenta del Golgota su di noi, che sostiamo davanti alla sua provocazione mai esaurita. Il fulcro intorno a cui si ruota diventano le “piaghe del Crocifisso”, che si chiede alla “Sancta Mater” di “imprimere saldamente” nel proprio “cuore”. Si procede concentrandosi sempre di più sui segni fisici delle ferite inscritte nel corpo del Redentore, quasi incorporandole a sé, identificandosi con la loro dura traccia dolorosa: si chiede di restare feriti da quelle stesse piaghe, di condividere la medesima pena patita da Cristo, di “avere parte” alla sua passione, di imparare a restare, al fianco di Maria, ai piedi della croce che salva e protegge.

Non è la deriva di una immaginazione squilibrata. Quelle ferite e quel sangue innocente sono l’esaltazione clamorosa dell’eccesso fino al quale può spingersi l’amore totalmente gratuito di Dio per l’uomo. Siamo davanti all’apologia della misericordia più piena che si rovescia come dono dal cielo sulla terra. La pietà dispiegata per accogliere nel proprio grembo l’uomo peccatore e mortale è il prodigio che accende la riconoscenza di un amore restituito e ridesta il desiderio di rendersi veramente degni del perdono divino: “Fa’ che il mio cuore arda / nell’amare Cristo Dio, / perché io gli sia gradito”.

Basta solo avere il coraggio di “guardare” fino in fondo ciò di cui siamo resi senza merito spettatori.