Il 10 maggio 2012 il Parlamento europeo, su proposta di “Gariwo, la foresta dei Giusti” ha istituito la Giornata europea dei Giusti, che si celebra per la prima volta domani, 6 marzo, a Milano. La Giornata è dedicata a coloro che hanno difeso in modo esemplare la dignità della vita contro l’oppressione delle ideologie totalitarie, rappresentando in tal modo, con la loro vita, una memoria perenne del bene.
Gariwo ricorderà in una cerimonia pubblica (maggiori dettagli sul sito di Gariwo), Fridtjof Nansen, Dimitar Peshev, Samir Kassir e Vaclav Havel, drammaturgo, dissidente, tra i fondatori di Charta ’77 e primo presidente della Repubblica Ceca.
Ilsussidiario.net, insieme a Gariwo, ricorda Havel con il lungo articolo di Adam Michnik che presentiamo integralmente, uscito l’8 e 9 ottobre 2011 su Gazeta Wyborcza con il titolo “Saggio su Dio, Il diavolo e l’amico Vacek” (sottotitolo: All’ex presidente della Cecoslovacchia e della Repubblica ceca in occasione del suo 75 compleanno. “La vera prova per l’uomo non è il ruolo che ha ricoperto o che ha pensato per sé, ma come ha svolto il ruolo che gli è stato affidato dal destino”; Jan Patocka). La traduzione dal polacco è di Annalia Guglielmi.
I – Bohumil Hrabal ha scritto in una delle Lettere a Kwiecienka: “Cara Kwiecienka, in questo giorno in cui Vaclav Havel è divenuto il nuovo presidente di questa nostra Repubblica, mentre l’entusiasmo rompeva gli argini, perché un fiume di lacrime aveva gonfiato la corrente della Moldava, ho percorso la Via Regale, completamente tappezzata di manifesti e scritte, tanto che non c’era più neppure un pezzo di muro o di vetrina libero, e l’entusiasmo degli studenti, che traspariva da tutti i loro gesti, esprimeva la volontà che diventasse il loro presidente questo uomo giovane come gli altri, questo uomo che è la misura non solo della nostra vita politica, ma che è la misura di tutto il mondo…”
È evidente che Havel in quel momento, tra il 1989 e il 1990, era l’indiscusso leader della Rivoluzione di Velluto, ed era adorato. Sembra che dietro le quinte, un illustre professore gli abbia detto: “Lei è più importante di Dio”. La sua candidatura alla presidenza era sostenuta dalla piazza, dalle organizzazioni nate dai circoli dell’opposizione democratica, ed anche da tutti gli ambienti ufficiali, dalla Lega delle Donne e addirittura dall’Armata Popolare Cecoslovacca.
Tutti i deputati votarono per lui, anche quelli, ricordava Havel a distanza di anni, che “ancora qualche giorno o qualche settimana prima chiedevano di mettermi in carcere”. Il Parlamento era circondato da un’immensa folla che offriva ai deputati il pane e il sale. Era un modo per invitarli alla concordia e a votare per Havel.
Il suo nome e la sua fotografia erano dappertutto. Lo scrittore e dissidente, il prigioniero politico era diventato il biglietto da visita della nuova Cecoslovacchia e la stella dei mass media di tutto il mondo. Anni dopo, Havel dirà: “In seguito ho pagato cari quei momenti di gloria. La rabbia per il proprio precedente servilismo non era l’unica ragione della successiva ostilità di molti nei miei confronti. Non meno importante, anzi, forse molto più importante, fu certamente il fatto che spesso io ho incarnato le idee della minoranza, e per questo non corrispondevo all’idea che generalmente si ha dei politici intesi come espressione delle idee o della mentalità della maggioranza della società. Anche se non l’ho mai voluto, molti – non solo negli anni della dissidenza, ma anche in quelli della presidenza – mi hanno considerato un pungolo per le loro coscienze. E questo è imperdonabile”.
II – Nel periodo del comunismo, Havel aveva sentito su di sé i giudizi più disparati, ad esempio era stato accusato di essere il rampollo borghese di una famiglia di multimilionari, che possedevano metà di Praga. Aveva, allora, pazientemente spiegato che suo padre era un imprenditore edile (aveva costruito il quartiere residenziale di Praga Barandov), e che dopo il febbraio 1948 e il colpo di stato comunista la sua famiglia era stata privata del patrimonio e minacciata di essere espulsa da Praga, mentre a lui venne impedito di iscriversi all’università. Aveva quindi cominciato a lavorare come tecnico, mentre contemporaneamente studiava al ginnasio serale.
Ricorda: “Se non ci fosse stato il febbraio 1948, molto probabilmente avrei fatto il ginnasio inglese e avrei cominciato a frequentare la facoltà di filosofia, mi sarei laureato senza essermelo veramente meritato, avrei avuto una Mercedes sportiva e sicuramente sarei diventato qualcosa a metà tra un uomo di cultura (molto più di quanto non lo sia oggi) e un rampollo della gioventù dorata”.
Cominciò a scrivere presto, e presto cominciò a collaborare con i teatri d’avanguardia e studenteschi. Cominciò anche a dire quello che pensava della politica. Negli anni 60 i teatri iniziarono a mettere in scena le sue prime opere: Garden Party e Memorandum. Nello stesso periodo era anche uno dei redattori della rivista letteraria “Tvar”, che ben presto però fu chiusa dalla nomenclatura del partito.
Durante la Primavera di Praga, fece parte del gruppo dei radicali apartitici, che criticavano i comunisti riformisti per l’eccessiva prudenza e la mancanza di immaginazione sulle intenzioni dell’Unione Sovietica. Nel periodo della “normalizzazione”, dopo l’intervento sovietico, gli fu proibito pubblicare. Secondo le parole di un pubblicista ceco, quello fu anche il periodo del “crollo della società in un baratro morale”, che coinvolse anche molti conoscenti di Havel.
III − In quel triste periodo, l’istinto di uomo di teatro non abbandonò mai Havel. Nel gennaio 1969, trovò nel suo appartamento di Praga un microfono. L’agente di polizia chiamato da Havel si rifiutò di redigere il verbale e chiese che gli venisse consegnato l’apparecchio. Havel, prima descrisse l’accaduto sulla stampa (era ancora possibile), provocando quasi uno scandalo, poi ne fece un aneddoto divertente, che raccontava in modo colorito, facendo divertire gli amici.
Negli anni seguenti – 1970-1974 – visse con la moglie Olga nella sua casa di campagna “Hradecek” sui monti Sudeti. Era continuamente controllato dai servizi di sicurezza, nei giorni feriali e in quelli festivi, d’estate e d’inverno.
Una volta, come racconta Pavel Kosatik, biografo di Olga Havel, ebbe compassione per la sorte degli agenti intirizziti che stazionavano davanti a casa sua e portò loro un grog. In un primo momento, ligi al regolamento, rifiutarono, ma poi bevvero d’un fiato le tazze lasciate per loro.
I gesti da Buon Samaritano di Vaclav facevano infuriare Olga; invece Jacek Kuron quando, in veste di candidato alla presidenza polacca, andò a trovare Havel a “Hradecek” ascoltò questi racconti con gioia e comprendendoli a fondo. Anche lui era fatto così. Un’altra volta, mentre era in macchina, Havel si accorse che la macchina dei servizi segreti che lo stava seguendo era finita in un fosso. Si fermò e tirò fuori gli agenti dal fosso.
Ha ricordato negli anni 80: “Avevo continuamente una «scorta», spesso venivo interrogato (…), più di una volta sono finito agli arresti domiciliari, ricevevo ingiurie e minacce da parte di «ignoti», mi mettevano sottosopra la casa, mi graffiavano la macchina. Era il periodo caldo dei raid della polizia, delle fughe dalla «scorta», dei nascondigli nei boschi, delle perquisizioni e del frenetico bruciare o mangiarsi i documenti più svariati, era anche, tra l’altro, il periodo dei nostri incontri sul confine con i dissidenti polacchi (io, famoso anti-camminatore, fui costretto per ben cinque volte ad arrampicarmi sul monte Sniezka, ma fui premiato: ebbi la possibilità di conoscere personalmente Adam Michnik, Jacek Kuron e gli altri membri del KOR e diventare loro amico per tutta la vita)”.
Fu allora, nell’estate del 1978, sul monte Sniezka, che cominciò la mia personale avventura con Vaclav Havel.
IV − Fu un incontro importante: fu la testimonianza simbolica dell’unità degli intenti e dei valori dell’opposizione democratica in Polonia e in Cecoslovacchia. In quell’occasione noi, uomini del KOR e di Charta ’77, preparammo una dichiarazione comune per il decimo anniversario della Primavera di Praga, del Marzo polacco e dell’intervento sovietico in Cecoslovacchia.
Ascoltai un colloquio di Havel con Kuron. Come erano vicini nel loro anticomunismo e nel loro antifascismo, nella loro fede nell’importanza di costruire le strutture della società civile, nella comprensione dei movimenti dissidenti che avevano creato.
Jacek aveva una mentalità a-filosofica: la sua filosofia era l’azione. Per Jacek la politica era il naturale elemento del suo essere un appassionato educatore. Fin d’allora brillava per il suo talento di oratore. Vaclav era piuttosto un intellettuale: quello che diceva aveva un grande retroterra filosofico, e faceva riferimento ad Heidegger e Patocka. Mi colpì il suo sfuggire a qualsiasi classificazione: non era un comunista ribelle (a differenza di Jacek), non era un cattolico, non era né un conservatore, né un liberale, né un socialdemocratico. Cordiale, silenzioso, con il distacco dello scrittore e del filosofo dal rumore della realtà. Semplicemente era un democratico o un uomo timido, pacifico ed umile, ma dotato di un grande coraggio, di una grande immaginazione e di un’enorme coerenza.
Verso la fine dell’incontro, Vaclav estrasse dallo zaino un pane, del formaggio e dell’affettato da offrire a noi Polacchi che non avevamo portato niente da mangiare. Tirò fuori anche una bottiglia, sull’etichetta c’era un cacciatore. Era una bottiglia di vodka: “La vodka del cacciatore”. Disse: “Non abbiamo il socialismo dal volto umano, ma almeno abbiamo la vodka dal volto umano”. E ce la bevemmo.
Quell’incontro fu certamente un gesto eroico (le conseguenze per tutti noi, ma soprattutto per i Cechi, potevano essere molto gravi), ma fu anche divertente. Ci faceva ridere la prevedibile reazione dei servizi di sicurezza di entrambi i nostri paesi se lo fossero venuti a sapere: un incontro illegale di alcuni criminali di entrambi i paesi, che ritenevano necessario che le loro nazioni iniziassero ad essere amiche e a collaborare, c’era qualcosa del teatro dell’assurdo. Pensai: “in fondo il teatro dell’assurdo è sempre stato la specialità di Havel”.
Havel aveva spiegato che il teatro dell’assurdo non era né patetico, né didattico. Era “scandalosamente umoristico”. Non era neppure nichilista. “Non offre né consolazione, né speranza. Ci ricorda semplicemente come viviamo: senza speranza. In questo consiste il suo compito di monito”.
Nel 1974, per alcuni mesi Havel lavorò in una fabbrica di birra. Quell’esperienza gli ispirò la trama dell’opera L’udienza.
Il capo della fabbrica di birra, al quale i superiori avevano ingiunto di spiare Vanek, scrittore e dissidente (alter ego di Havel), gli propone di redigere lui stesso i rapporti alla polizia segreta. Vanek si rifiuta: “Per una questione di principio”.
In risposta ascolta lo sfogo del capo della fabbrica: “Ah sì? E così tu te ne freghi di me? Io posso essere un porco! Io posso rotolarmi in questa merda, io non conto, io sono solo un povero cafone della fabbrica di birra, vero? Ma lei, lei non può entrarci! Io posso sporcarmi di fango, purché lei rimanga pulito! Perché lei ha dei principi! E quello che succede agli altri non le interessa! Purché lei rimanga bello e lindo! I principi per lei sono più importanti delle persone! (…)
Voi, intellettuali! Gran signori! Solo parole garbate, solo che voi potete permettervelo, perché a voi non può succedere niente, tutti si interessano a voi, voi ve la cavate sempre, voi vincete sempre, anche se siete a terra (…) Principi! Come potreste non difenderli, questi vostri principi? In fondo vi convengono alla grande, li vendete benissimo, ci guadagnate un sacco, voi vivete grazie a questi principi, e io? Io posso solo ricevere degli schiaffi (…). Io servo solo per fare il letame su cui crescono i vostri principi, per procurarvi le stanze al calduccio per il vostro eroismo e perché alla fine ci sia qualcuno da sbeffeggiare! Tu un giorno tornerai dalle tue attrici e ti vanterai di come hai fatto rotolare le botti, e sarai un eroe! E io? Da chi potrò tornare? Chi si accorgerà di me?”.
Molti dissidenti in quegli anni hanno ascoltato sfoghi come questo!
V − Prima di conoscere Vaclav Havel, avevo letto il saggio di Karel Čapek, fantastico scrittore ceco, dal titolo Un posto per Jonathan, scritto nel 1938. Scrive Čapek: “Tutta la nazione, tutto il Reich, si è convertito alla fede nel biologismo animale, nella razza e in altre idiozie del genere, attenzione: tutta la nazione, compresi i professori delle università, i sacerdoti, i letterati, i medici e gli avvocati. Vi sembra possibile che sia stata propugnata una dottrina così bestiale e che ogni uomo colto di questo coltissimo Reich si sia limitato solo a scuotere le braccia e a dire che non si sarebbe lasciato coinvolgere in conflitti e discussioni primitive (…)?
Sembra che nell’attuale situazione del mondo l’intellighenzia abbia davanti a sé tre strade: la correità, la viltà o il martirio. Però c’è una quarta via: non tradire la propria disciplina spirituale, neppure nelle circostanze più difficili e non tradire e non rinunciare a nessun costo ad uno spirito indomito e consapevole (…).
Possiamo in qualche modo aiutare il mondo? Se avessi la certezza che non possiamo fare niente, deporrei le armi e sarei profondamente angosciato, ma sento che ancora (…) si possono combattere il fanatismo e la bestialità, che ancora è possibile non imporre, ma comprendere (…), che ancora tutti possiamo essere ragionevoli, che ancora l’esperienza, la conoscenza, le leggi dello spirito e le leggi della coscienza possono tornare a guidarci”.
È difficile immaginare una descrizione migliore dell’eredità storica con cui Havel si è confrontato per tutta la vita.
Il grande filosofo ceco Jan Patočka ha scritto che i Cechi, una piccola nazione dell’Europa, hanno avuto la loro “grande” storia e la loro “piccola” storia. “Grande” quando hanno affrontato in modo autonomo e creativo le grandi problematiche universali. Questo è accaduto, ad esempio, quando i Cechi sono stati l’avamposto del movimento riformista europeo e hanno aperto davanti al cristianesimo occidentale la strada verso un cristianesimo “laico”. La “piccola storia” ha dominato i Cechi quando si sono rinchiusi, o “sono stati rinchiusi”, nella banalità del provincialismo.
L’epoca stalinista è stata certamente un periodo della “piccola storia” dei Cechi. Invece, la Primavera di Praga del 1968, insieme ai fermenti culturali che l’hanno preceduta, ha portato la Cecoslovacchia sulla strada della “Grande Storia”. In quel periodo la cultura ceca: cinema, letteratura, progetti politici, conquistò il mondo. In quel momento la Cecoslovacchia pose al mondo le domande fondamentali: è possibile un socialismo democratico, un socialismo dal volto umano? È possibile la fine pacifica della dittatura comunista?
La voce di Havel fu particolarmente importante in mezzo alle tante voci che si levarono per porre queste domande e cercare una risposta.
Il Cremlino rispose con l’intervento militare, che fermò il cammino verso la libertà. E allora la piccola nazione dovette cercare una risposta alla domanda su come vivere la sconfitta. Scrisse in quegli anni Milan Kundera: “E’ piccola la nazione la cui esistenza può essere messa in discussione in qualsiasi momento, che può scomparire, e che lo sa”.
Questa consapevolezza ha sempre accompagnato i leader della Cecoslovacchia, soprattutto Benes, presidente della repubblica nel 1938, e Dubcek, capo del Partito Comunista Cecoslovacco durante la Primavera di Praga. Troviamo una testimonianza del suo modo di pensare nella Lettera che Havel scrisse ad Aleksandr Dubcek in quel memorabile 1968.
In Cecoslovacchia l’opinione pubblica era divisa. Alcuni dicevano: “Salviamo il salvabile” e cercavano di convincere Dubcek a cercare un compromesso e a fare concessioni. Altri sostenevano che con le concessioni non si sarebbe salvato nulla. Dicevano: “Abbiamo perso, era impossibile vincere lo scontro con l’esercito sovietico. Però almeno, cerchiamo di perdere con dignità, infatti la dignità e la verità sono il nostro patrimonio più grande”. Havel faceva parte del secondo gruppo. Scrisse a Dubcek: “Per l’opinione pubblica mondiale Lei è il simbolo del tentativo cecoslovacco di creare un «socialismo dal volto umano». La nostra società vede in Lei un uomo onesto, coraggioso e degno di fiducia. La gente (…) sa che Lei non è capace di tradire”.
Invece, i comunisti che vogliono “ripristinare il vecchio ordine” nascondendosi dietro i carri armati sovietici, vogliono che “proprio Lei divenga il principale accusatore della propria politica e che Lei pubblicamente sostenga l’intervento che ha distrutto quella politica (…). Vogliono metterLa in ginocchio, quindi, a loro non basta che Lei abbia perso il potere. Vogliono di più: vogliono che Lei perda anche la faccia”.
È in gioco qualcosa di molto più grande dell’onore e della dignità personali di Dubcek, scrive Havel, è in gioco “l’onore e la dignità di tutti coloro che hanno avuto fiducia nella Sua politica e che oggi, impossibilitati a parlare, vedono in Lei l’ultima speranza per cercare di salvare l’unica cosa che ancora si può salvare del tentativo cecoslovacco : il rispetto per se stessi”. Se sceglierai la strada della verità, spiegò a Dubcek, la gente capirà che “bisogna sempre salvaguardare gli ideali e la spina dorsale morale”.
E concluse: “A volte ci sono dei momenti in cui un politico può ottenere un vero successo politico, solo se dimentica tutta la trama delle ragioni politiche, delle analisi o del calcolo e si comporta semplicemente da uomo per bene. Nel mondo disumanizzato delle manipolazioni politiche, alcuni semplici criteri umani possono avere l’effetto di un fulmine, che improvvisamente illumina il buio circostante con il suo raggio di luce”.
Dubcek non rispose alla lettera. Non condannò mai la propria politica, ma non ebbe neppure il coraggio, come sappiamo, di scegliere una sconfitta dignitosa e di rimanere fedele alla verità. Scelse la strategia delle concessioni, del silenzio e dell’attesa, scelta che, del resto, non lo salvò dall’umiliazione e dall’emarginazione. Percorse la strada dello “scivolare nella storia come il soldato Svejk”.
Havel percorse un’altra strada.
VI − Da una lettera dalla prigione a Olga: “Ho sempre messo al di sopra di tutto la fedeltà e – come dico sempre – la perseveranza, e devo dire che con il passare degli anni apprezzo sempre di più queste caratteristiche. Questo non è un amore conservatore dello status quo, ma solo il rispetto per l’identità e la tradizione umane”.
VII − Le citazioni dalla lettera di Dubcek per me sono state fondamentali anche per ragioni sentimentali. Nel 1968 e negli anni seguenti ero rinchiuso in una cella del carcere di Varsavia nel quartiere di Mokotow e seguivo gli eventi cecoslovacchi con la sua stessa emozione. Ovviamente, non conoscevo la lettera di Havel, ma osservavo con tristezza la capitolazione dei leader della Primavera di Praga. Poco tempo fa ho sentito la poesiola “Tutta la Polonia aspetta il suo Dubcek”. In quel momento non lo aspettava più nessuno. (Solo dopo vent’anni è stata pubblicata da noi la poesiola “Havel al Wawel”).
La repressione della Primavera di Praga e la capitolazione dei leader del Partito Comunista Cecoslovacco, a parte poche eccezioni, come ad esempio Frantisek Kriegl, fecero morire la speranza in una forza riformatrice all’interno del partito comunista, nella possibilità di democratizzare il sistema dall’alto, in un nuovo Ottobre Polacco. Ormai non pensavamo più a come democratizzare il sistema comunista. Cominciammo a pensare a come bisognava difendersi.
I percorsi della riflessione polacca e cecoslovacca erano simili, e ci portarono al KOR e a Charta ’77. Quindi, innanzitutto bisognava osservare attentamente questo sistema e descriverne la natura dalla prospettiva di uomini preoccupati per i valori che venivano calpestati.
A questo servì in quel periodo la saggistica politica di Leszek Kolakowski; a questo servì la lettera di Havel a Gustav Husak, il nuovo capo del Partito Comunista Cecoslovacco.
Dopo l’intervento sovietico, sopraggiunse il triste periodo della “normalizzazione”, in cui gli scrittori, i filosofi o gli storici disobbedienti potevano lavorare solo come camerieri, fuochisti o guardiani notturni. La “normalizzazione” trasformò la Cecoslovacchia in un deserto culturale; fu il periodo della capitolazione di alcuni e dell’emigrazione di altri.
Havel vinse la tentazione di emigrare. Scelse il destino di uomo emarginato, di uomo spirituale (secondo la definizione di Patocka), il destino del dissidente, rischiando il carcere o l’annientamento. La lettera a Husak fu un chiaro guanto di sfida lanciato alla dittatura.
In quella lettera Havel scrive apertamente al dittatore che in Cecoslovacchia domina il terrore. Il terrore, esito dello strapotere della polizia, genera menzogna e conformismo, egoismo e carrierismo, e la corruzione di tutte le norme morali. Il terrore è necessario alle élite al potere perché nel paese ci sia pace. E la pace c’è: la pace di un obitorio.
Havel mette in guardia il dittatore: “sotto la crosta dell’immobilismo scorre un ruscello invisibile, che lentamente ed impercettibilmente la corroderà. Potrà essere necessario molto tempo, ma un giorno accadrà: la crosta comincerà a spaccarsi”.
Ricorda a Husak che se un uomo deve dichiarare tutti i giorni di amare un potere che non sopporta, questo non significa che “in lui si sia spento uno dei sentimenti fondamentali: il sentimento dell’umiliazione”. Chi sa combattere a viso aperto contro la propria umiliazione, riuscirà anche dimenticare di essere stato umiliato; invece, chi sopporterà a lungo e in silenzio l’umiliazione, se ne ricorderà per molto tempo. “Nulla sarà dimenticato: tutta la paura, tutta la doppiezza, tutta questa imbarazzante e indegna pagliacciata (…). In queste circostanze è difficile prevedere tutte le possibili varianti della futura «ora della verità», cioè di come un giorno questa società, così ampiamente e palesemente umiliata, chiederà soddisfazione”.
Credo che nessuno di noi sia riuscito ad immaginare la rivoluzione di velluto e la seguente corsa alla “lustrazione” e alla decomunizzazione.
VIII − La cancelleria di Husak rispedì ad Havel la lettera scrivendo che l’autore “l’aveva inviata ai servizi segreti nemici, dimostrando così la propria ostilità verso la patria”.
Quella lettera fu come un lampo nella buia notte della normalizzazione di Husak. E fu anche il presagio di Charta ’77.
Charta ’77 era una “comunità libera, informale ed aperta di uomini di diverse convinzioni, diverse religioni e diverse professioni, legati dalla volontà di operare, individualmente e insieme, per il rispetto dei diritti civili ed umani”. I primi firmatari della Charta furono Jiri Hajek, capo del Ministero degli Esteri durante la Primavera di Praga, Vaclav Havel e Jan Patocka, che morì di lì a poco, dopo una serie di pesantissimi interrogatori nella sede dei servizi di sicurezza. Qualche giorno prima di morire Patocka scrisse: “Molti mi chiedono se Charta ’77 non faccia peggiorare la situazione della nostra società. Rispondo loro con chiarezza: nessun servilismo ha mai migliorato le cose, ma le ha sempre fatte peggiorare. Quanto maggiore sono stati il terrore e il servilismo, tanto più il potere si è spinto, si spinge e si spingerà oltre. Non c’è altro modo per diminuirne la pressione, se non farlo sentire insicuro, dimostrargli che l’ingiustizia e la discriminazione non vengono dimenticate, che non annegano nelle acque del silenzio”.
Non a caso, Havel dedicò il suo famoso saggio Il potere dei senza potere “alla memoria di Jan Patocka”. Infatti fu Patocka a parlare nei suoi Saggi eretici della solidarietà di “coloro che hanno subito il crollo” nella fede nel conformismo quotidiano.
Ed è proprio così che Havel ha inteso il senso morale del movimento “dissidente” (benché non amasse questa definizione) raccolto attorno a Charta ’77. Scrisse: “Finalmente bisogna dire insieme e ad alta voce la verità, indipendentemente dalle conseguenze, ed indipendentemente dall’incertezza della speranza che questo gesto possa portare ad un risultato tangibile in un tempo prevedibile”.
Il potere dei senza potere è la sintesi più matura della genesi, della filosofia politica e dell’ethos dei movimenti dissidenti dell’Europa Centro Orientale. Durante l’incontro di Sniezka noi, amici polacchi e cecoslovacchi, decidemmo di preparare un libro comune che raccogliesse alcuni articoli sulle nostre esperienze e le nostre previsioni. I Cechi scrissero la loro parte, noi non ci riuscimmo. Invece, pubblicammo Il potere dei senza potere, e altri testi, nella rivista trimestrale “Krytyka”.
Il saggio di Havel parla della nascita di Charta ’77, di quella solidarietà di “coloro che hanno subito il crollo” del “potere dei senza potere” (i dissidenti) e dell’“impotenza dei potenti” (gli uomini dell’apparato). “L’impotenza dei potenti” dipende dalla natura del potere, che può reprimere, ma non genera nulla, è irrigidito, ha perso ogni moralità. Infatti, coloro che sono costretti a vivere nella menzogna e nell’umiliazione sono assetati di verità e dignità. Ha scritto acutamente Havel: “E’ come un’arma batteriologica, con la quale, in condizioni adeguate, un unico civile può sconfiggere un’intera divisione armata!”
Molte dichiarazioni di Havel erano vicine alle idee della gente raccolta attorno al KOR, soprattutto a quelle di Kuron. C’erano, però, anche delle differenze.
Entrambi erano distanti dal modello occidentale di democrazia parlamentare. La democrazia parlamentare, di cui Kuron era comunque un sostenitore, garantisce alla persona la libertà di scelta, ma le permette di realizzare le sue aspirazioni ideali solo nel tempo libero. Mentre non riesce a garantirlo durante il tempo dedicato al lavoro. Kuron riteneva quindi che il fine dell’opposizione democratica fosse l’emancipazione del mondo del lavoro.
L’obiezione di Havel al parlamentarismo è di altro tipo: la crisi delle dittature comuniste, la cui ideologia era diventata ormai un banale consumismo, è un aspetto di una crisi molto più profonda: la crisi della “civiltà tecnologica in quanto tale”.
Havel ripete con Heidegger che la crisi nasce dall’impotenza dell’uomo di fronte alla forza planetaria della tecnologia, che “è sfuggita di mano all’uomo, ha cessato di essere al suo servizio, lo ha reso schiavo e lo ha costretto a supportarla mentre gli sta preparando lo sterminio”.
In questa situazione, la democrazia parlamentare tradizionale, secondo Havel, non è una soluzione. “Il modo con cui manipola l’uomo è soltanto infinitamente più sottile e molto più raffinato rispetto ai metodi brutali del sistema post-totalitario”.
Havel non sapeva come uscire da questa crisi, ma pensava ad una “rivoluzione esistenziale”, che avrebbe portato ad una “ricostruzione della società”. In altre parole, ripeteva con Heidegger: “ormai solo un qualche Dio ci può salvare”.
Tuttavia, Havel riconosceva che in un paese del blocco sovietico, il parlamentarismo tradizionale “potrebbe essere un’adeguata soluzione transitoria, per iniziare a ricostruire l’autocoscienza ferita dei cittadini, per far nuovamente comprendere il valore della discussione politica, e per creare le condizioni che portino alla creazione di un elementare pluralismo politico in quanto intenzione fondamentale della vita”.
Havel inseriva l’ethos del dissidente e il progetto politico di Charta ’77 all’interno dell’orizzonte della sua visione filosofica del futuro.
Ad una prima lettura non mi risultarono immediatamente chiari alcuni concetti di Havel, anche se erano tutti affascinanti e fonte di ispirazione. Non mi soffermai troppo sulle profezie di Heidegger e sulla “rivoluzione esistenziale” di Havel; sapevo e vedevo che Havel, ed insieme a lui altri dissidenti, stavano realizzando una rivoluzione esistenziale nella propria vita e nel proprio ambiente, scegliendo la libertà, e pagandone il prezzo, scegliendo quell’unica strada per vivere nella verità.
IX − Per Vaclav Havel vivere nella verità voleva dire dare testimonianza con la propria vita. Questo era il suo “potere dei senza potere” e il suo atteggiamento durante la prigionia ne è una chiara testimonianza. Lo scrittore aveva capito che il potere comunista voleva umiliarlo, ridurlo a uno straccio, sputargli in faccia.
Quando fu arrestato per qualche mese nel 1977, Havel commise l’errore tipico di ogni carcerato debuttante: spedì alle autorità una richiesta di scarcerazione, pensando che non avesse alcun valore. Un brano di questa domanda, avulso dal suo contesto e commentato in modo tendenzioso fu pubblicato sulla stampa ufficiale. Ed egli venne liberato.
La liberazione venne interpretata da molti come un premio per la sua capitolazione. Queste calunnie e gli equivoci che ne seguirono lo fecero soffrire molto e rimasero impressi a lungo nella sua memoria. Anche dopo l’arresto del 1979, gli fecero capire che sarebbe stato liberato subito se avesse accettato di emigrare negli Stati Uniti. A quei tempi spesso erano questi i dilemmi dei dissidenti: la libertà all’estero, o il carcere in patria. Molti fecero scelte diverse, Havel scelse il carcere.
Una descrizione commovente di questa scelta è contenuta nelle lettere che scrisse a Olga dal carcere.
Subito dopo la sentenza (a quattro anni e mezzo), nel gennaio 1980 scrisse che avrebbe resistito: “Sono un ostinato di un Ceco e lo rimarrò per sempre”. Qualche tempo dopo (nell’agosto 1980) si chiese: “è cambiato forse il mondo attorno a noi? Si è forse spostato il significato? Perché improvvisamente tanti amici partono?”.
Non condannava coloro che se ne andavano. Capiva bene che ad un certo punto non se ne potesse più di essere continuamente spiati, di aspettare tutti i giorni di essere arrestati e di avere sempre paura che un manoscritto potesse cadere nelle mani della polizia segreta. Tutto questo logorava spiritualmente e fisicamente e provocava depressione e rassegnazione. Ecco cosa scrisse ad Olga (settembre 1980): “Uno dei temi relativamente più frequenti delle mie riflessioni e fantasticherie, quando la mia mente ‘vaga’, sono gli amici che sono partiti. L’andamento abituale delle mie meditazioni è questo: all’inizio ci sono un po’ di tristezza e un briciolo di invidia (per i loro successi artistici) ed anche un po’ di angoscia (finalmente possono fare di nuovo quello che gli interessa, sono pieni di lavoro, liberi da tutte queste infinite preoccupazioni, ormai da tempo forse considerano inutili i nostri sforzi, e dall’altra parte ci sono io, privato di tutto questo e senza alcuna possibilità di lavorare in un teatro…) – quindi all’inizio le mie meditazioni cominciano così – ma alla fine di queste riflessioni c’è una particolare gioia interiore, perché sono qui dove devo essere, perché non ho fatto niente tradendo me stesso, perché non ho approfittato di nessuna scappatoia e perché in mezzo a tutte queste mie sofferenze non c’è la peggiore delle sofferenze (che ho già conosciuto sulla mia pelle), e cioè la sensazione di non essere stato all’altezza della situazione”.
Il problema della “libertà pagata con l’emigrazione” si era già presentato ad altri prigionieri e alle loro mogli, tra gli altri a Vaclav Benda, condannato nello stesso processo di Havel.
Benda, scrisse Pavel Kosatik, aveva considerato due conseguenze di un eventuale esilio: “da un lato le conseguenze morali sugli amici, dall’altro la consapevolezza, relativamente consolatoria, che la cosa peggiore che potesse capitare ad un attivista della Charta in fondo non erano né la morte, né lunghi anni di carcere, ma la proposta di ricevere il passaporto per emigrare”.
La moglie di Benda, Kamila, con cui Olga Havel parlò a lungo di questo problema, formulò delle indicazioni molto chiare per i prigionieri: 1) i topi abbandonano la nave per primi, e il capitano per ultimo; 2) proprio perché erano in prigione stavano facendo un grande lavoro per la Charta; 3) se una persona rinuncia a portare fino in fondo ciò che ha iniziato, questo di norma ha delle conseguenze molto pericolose su tutto il resto della sua vita. Disse anche che “l’eventuale partenza di Havel avrebbe avuto delle conseguenze gravi sul senso morale degli altri dissidenti e avrebbe distrutto l’autorità morale di cui godeva in quell’ambiente; secondo lei, per il lavoro che stava facendo quando era stato arrestato nel 1977, la partenza di Havel sarebbe stata considerata un tradimento”.
Penso che Vaclav (e Olga) avessero questa stessa filosofia. Nel marzo 1982 Vaclav scrisse a Olga che grazie alla prigione poteva provare “a me stesso, a quelli che mi circondano e a Dio di non essere un pagliaccio, come forse hanno pensato alcuni (…), che alle mie parole seguono i fatti”. In ultima analisi si trattava proprio di questo: “essere e rimanere me stesso anche qui, e soprattutto qui”.
X − Vivere nella verità può sembrare una formula patetica, ma a quei tempi non c’era molto spazio per il pathos. Si correva continuamente da tutte le parti, si parlava senza fine, c’erano molti problemi con i servizi segreti e solo raramente avevamo la sensazione di vivere da uomini liberi. Eppure anche questa sorta di sotto cultura dissidente aveva le sue trappole. Havel sapeva, e lo scrisse, che anche lo status di dissidente può portare al conformismo attraverso comportamenti da pecora all’interno del proprio stesso ambiente, a demonizzare il nemico (ad esempio i comunisti) e ad angelicare se stessi. Lui non vedeva il nemico nei comunisti, ma nel sistema comunista.
Guardava lucidamente ai comunisti: ricordava sia la loro opposizione alla capitolazione di Benes nel 1938, sia il colpo di stato del 1948, quando Gottwald distrusse lo spirito democratico della repubblica. Riteneva normale che alcuni di loro fossero fra i firmatari di Charta ’77, di alcuni aveva un rispetto enorme, basta leggere il suo bellissimo saggio su Frantisek Kriegel, ebreo di Stanislavov, comunista prima della guerra, medico, volontario nella guerra civile spagnola, poi funzionario di partito ed infine uno dei riformatori della Primavera di Praga. Nell’agosto del 1968 a Mosca, Kriegel fu l’unico membro del Comitato Centrale del Partito Comunista Cecoslovacco a rifiutarsi di firmare la dichiarazione della sconfitta. “Salvò l’onore della repubblica cecoslovacca”, ha scritto di lui Havel.
Vedeva in Kriegel una figura tragica. Era un uomo che sapeva sempre “che cosa è bene e che cosa è abbietto”, che cosa sono “l’onore e il tradimento”. “Come ha potuto un uomo come lui rimanere dentro un movimento che, quando ne ha avuto bisogno, ha violentato i sentimenti degli uomini e il buon senso e li ha ritenuti una congerie di pregiudizi e menzogne?” – si è chiesto Havel. Come ha potuto decidere di contribuire al rafforzamento del potere del partito comunista?
La tragicità della figura di Kriegel sta nel suo essere stato contemporaneamente un uomo di coscienza e un uomo di fede. All’inizio c’era stata la fede in un’ideologia “che riesce a giustificare il male presente con la visione utopica di un futuro luminoso, anche se lontano”; poi venne la fede nella democratizzazione del sistema comunista. Kriegel non rinnegò mai la sua fede nel “socialismo dal volto umano”.
Ha scritto Havel: “I tragici paradossi che vedo nel destino di Kriegel non sono solo i suoi, e neppure solo dei comunisti”. Secondo Havel sono “i paradossi fondamentali del nostro tempo”. E si chiede: “Chi ha veramente un cuore puro e uno spirito indipendente, ed è determinato a farsi guidare solo da essi, potrà mai conquistare un vero potere in un mondo dominato da interessi di parte, da passioni irrazionali, dal «realismo politico», da poteri ideologici e da ribellioni cieche, in una parola, potrà mai conquistare il potere nel caos della civiltà contemporanea? O non ha altra possibilità se non quella di cedere, per un compromesso dettato dal realismo o per una fede idealistica, a ciò in cui il mondo ripone la propria fiducia, a ciò che, forse, in un primo momento, sembra corrispondere alla sua coscienza, ma che in ogni istante può rivoltarsi contro di essa?”
No, Havel non è mai stato “un cavernicolo anticomunista”; per lui ogni uomo era un mondo a parte degno di una giusta considerazione. In tal modo egli ha creato un particolare modello di ethos del dissidente.
Una volta ha scritto che il “dissidente” è simile a Sisifo, che spinge in alto la sua pietra “pur sapendo che le possibilità di raggiungere la cima della montagna sono quasi nulle, la spinge semplicemente perché non ha altra possibilità per essere in sintonia con se stesso e per dare, almeno in questo modo, un senso alla propria vita e scoprire così l’orizzonte della speranza”.
Ritengo che per i miei amici dissidenti, ed anche per me, questa filosofia di vita del dissidente fosse sufficiente. Ad Havel non bastava. Egli lottava non solo contro la dittatura comunista, ma anche contro il male della civiltà contemporanea. Ha scritto: “Ogni tentativo di rinchiudere nelle mani dell’uomo tutta la natura e di deriderne il mistero, in poche parole, di far fuori Dio e di fingere di essere Dio, dovrà prendersi la sua vendetta sull’uomo. (…) Semplicemente: l’uomo non è Dio”.
Questo non lo ha scritto il dissidente politico, ma l’homo religiosus che si occupa di filosofia, cosa che Havel in fondo è sempre stato.
Havel rifiutava la concezione atea del mondo. Il protagonista della sua opera La tentazione (alter ego dell’autore) dice: “Quando l’uomo scaccia Dio dal proprio cuore, apre la porta al diavolo. Quell’immensa opera che è stata l’Olocausto, insieme all’ottusa arroganza del potere e all’ottusa obbedienza dei senza potere, quell’opera che è stata l’Olocausto realizzata sotto le bandiere della scienza – e anche noi siamo i grotteschi alfieri di quelle bandiere – non è forse un’opera diabolica? Sappiamo bene che il diavolo è il maestro del travestimento. E possiamo forse immaginare un travestimento migliore di quello che propone il laicismo contemporaneo? Per il diavolo, il miglior spazio di manovra deve essere proprio là dove si è smesso di credere nel diavolo!”.
A proposito della propria religiosità, Havel scrive ad Olga: “La fede per me è semplicemente un certo stato dell’animo, uno stato di continua apertura costruttiva, di continua domanda, di bisogno continuo e (…) immediato «di fare esperienza del mondo», e quindi la fede non mi raggiunge sgorgando da un oggetto concreto che sta al di fuori di me”.
In un’altra lettera precisa: “Sicuramente non sono né un vero cristiano, né un buon cattolico (come tanti miei buoni amici), per molti e svariati motivi, ad esempio perché non presto alcun culto a questo mio dio e anzi non capisco per quale motivo dovrei farlo. Quello che il mio dio è – l’orizzonte senza cui nulla avrebbe senso e non ci sarei neppure io – lo è per sua natura e quindi non grazie ad un qualche suo gesto eroico che meriti un gesto di culto da parte mia (…). Accolgo la Buona Novella di Cristo come sfida a cercare la propria strada”.
E infine collega tutto questo alla politica. Cerca “la genesi dello stato contemporaneo e del potere politico contemporaneo” nel momento in cui “la ragione comincia a svincolarsi dall’uomo, dalla sua esperienza personale, dalla sua coscienza e dalla sua responsabilità personale, e quindi anche da ciò a cui ogni responsabilità personale fa inevitabilmente riferimento all’interno del mondo naturale, cioè dall’orizzonte del suo assoluto”.
In altre parole, Havel da un lato ha smascherato il marxismo-leninismo, in cui vedeva una para-religione che offriva all’uomo una risposta pronta a tutte le domande, e dall’altro rispettava, e a modo suo professava, la religione, che impone di essere umili davanti al Mistero.
Guardava così anche alla morte: “la consapevolezza della morte è alla base di ogni volontà di vita veramente umana, cioè cosciente (…). Se viviamo, nonostante la coscienza della nostra inevitabile morte, e di più, se viviamo da uomini, cioè in modo dignitoso e consapevole, questo è possibile solo grazie ad una forte esperienza interiore della presenza dell’orizzonte assoluto dell’esistenza, e all’origine di questa percezione c’è proprio la consapevolezza della morte”.
Molti anni dopo, nel dicembre 2005, annotò: “Cerco continuamente di essere pronto per il Giudizio Finale. Per il giudizio di fronte al quale nulla resterà celato, che giudicherà tutto (…). Però, perché per me è così importante il giudizio ultimo? In fondo, a quel punto potrebbe essermi del tutto indifferente. Ecco, non mi è indifferente perché sono convinto che la mia esistenza, come tutto ciò che è accaduto, ha fatto increspare la superficie dell’essere, che, ormai è, e rimarrà per sempre, diverso da prima, dopo questo moto d’onda provocato da me, per quanto sia stato marginale, insignificante e fuggevole”.
Vaclav Havel, che secondo le sue stesse parole era “figlio della borghesia, operaio, soldato, montatore di scena, autore di teatro, dissidente, carcerato, presidente, pensionato, fenomeno pubblico ed eremita, supposto eroe e segreto codardo”, credeva che sarebbe “rimasto qui per sempre”. Nel 1986 disse che “è meglio non vivere affatto, che vivere senza onore”. Per questo ha sempre vissuto, e vive, con onore. Come molti altri.
Si chiese se sarebbe stato possibile “mettere la morale davanti alla politica e la responsabilità davanti alla rincorsa del fine, restituire significato alla comunità umana, e contenuto all’esistenza dell’uomo.”
Queste domande non hanno mai abbandonato Havel.
XI − La concezione che i dissidenti avevano della politica era completamente diversa dall’attività politica negli stati democratici. Generalmente, i dissidenti non si reputavano dei politici: erano scrittori, fisici, sociologi, architetti o studenti, e c’erano anche dei dissidenti che non avevano alcuna professione.
Havel ripeteva di non aver mai voluto fare il politico. Le questioni politiche lo interessavano e vi si coinvolgeva spesso, ma non voleva fare politica in modo attivo e concreto. Non aveva l’ambizione di diventare un dissidente “di mestiere”. Voleva fare lo scrittore e lavorare in teatro.
Anche per questo non aveva riflettuto a fondo sulle riforme dell’economia o del servizio sanitario. La sua personale “utopia” consisteva nel pluralismo economico e politico, nel dialogo fra la rappresentanza democratica e il giudizio dei tecnici.
Era scettico a proposito del sistema dei partiti politici. Pensava che si dovessero eleggere al parlamento delle persone concrete e non un partito. Riteneva molto importante la società civile. Temeva tutte le ideologie chiuse. Dalla prigione aveva scritto a Olga che temeva “il momento in cui un sistema ideologico diventa chiuso e completo, perfetto e universale”, più di una volta ha descritto questo momento come il momento in cui il sistema “finisce in macerie come per un crollo fisico”, perché “la realtà gli sfugge di mano”.
Di solito, il risultato di questo crollo dell’ideologia è una generale disillusione. L’uomo disilluso perde la fiducia nel mondo e negli uomini; si convince, scrive Havel a Olga, che “tutti i valori morali, gli scopi più elevati e gli ideali, non siano altro che un’ingenua utopia, e non ci sia altro da fare che accettare che il mondo «è così come è», cioè immutabile e ignobile”. Mentre, invece, “non è l’ignobiltà del mondo a portare l’uomo alla rassegnazione (…) è la sua rassegnazione a portarlo a teorizzare l’ignobiltà del mondo”.
E poi l’uomo disilluso si evolve. Nella misura in cui si adatta a “questo mondo ignobile”, questo mondo comincia a trasformarsi in una realtà che non è più “la peggiore in assoluto”, ma è certamente migliore delle destabilizzazioni che possono provocare gli “utopisti ingenui”, che vogliono migliorare il mondo. “In questo modo”, scrive Havel, “si arriva al triste finale, al momento in cui il critico implacabile del mondo, si trasforma nel suo strenuo difensore”.
Havel riconosceva di comprendere la disillusione di tanti, perché provocata dalla debolezza, dalla solitudine e dall’impotenza dell’uomo. “Però”, scrive, “sono convinto che in questa valle di lacrime non esista nulla che possa togliere all’uomo la speranza, la fede, il senso della vita: li perdiamo solo quando siamo noi a venir meno”.
Questo commovente annuncio e questa definizione dell’atteggiamento irriducibile del dissidente, contiene alcune trappole pericolose. La più pericolosa è la trappola del fanatismo. Scrive ad Olga: “Il fanatismo è una fede che tradisce se stessa”.
Il fanatico, dapprima crede di essere “responsabile per tutto”, quanto più questa responsabilità è sconfinata, “tanto più è indifesa davanti al trauma provocato dall’evidenza della realtà del mondo così come è stato appena descritto”. E allora la fede in un’idea si trasforma nella fede in una concreta istituzione. Ed è qui “l’errore fatale”. Trasferire un’idea “dalla sfera di un sogno senza confini al terreno dei gesti umani concreti” porta l’uomo ad essere ciecamente obbediente all’istituzione in cui vede il compimento dei suoi ideali. Spesso questo è allettante: l’obbedienza sostituisce la riflessione, l’uomo è esonerato dall’imperativo di pensare in modo autonomo per passare a servire l’istituzione (ambiente, partito, setta), in cui vede la strada per realizzare il proprio “sogno sconfinato”.
E Havel aggiunge: “Il fanatico è colui, che senza rendersene conto, sostituisce l’amore per Dio con l’amore per una religione creata da lui; l’amore per la verità con l’amore per un’ideologia, una dottrina o un setta, che gli hanno promesso che la realizzeranno definitivamente; l’amore per gli uomini con l’amore per un progetto, che sostiene di essere in grado, e naturalmente di essere l’unico, di servire veramente gli uomini.
Quanto maggiore è il fanatismo di una persona, tanto più facilmente essa cambia l’oggetto della sua «fede», le basta un attimo per passare dalla fede nel maoismo alla fede nei Testimoni di Geova, o viceversa, senza minimamente diminuire la propria dedizione”. Il fanatismo può rendere la vita più facile, ma il prezzo è la distruzione della vita stessa. Il destino tragico del fanatico sta in questo: il bel sogno umano di “farsi carico della sofferenza di tutto il mondo, alla fine non fa altro che moltiplicare la sofferenza: organizzando i campi di concentramento, l’inquisizione, omicidi e sentenze di morte”.
XII − Torniamo adesso a Jan Patocka, mentore intellettuale e autorità morale per i dissidenti cechi. Nel periodo della “normalizzazione” scrisse: “Oggi l’intellettuale ha tre modi possibili di agire: l’emigrazione interiore, come Platone, il compromesso, come i Sofisti, o una coerente vita nella verità, il conflitto con il potere e la morte, come Socrate”.
E scrisse nel saggio su Tomas Garrigue Masaryk, il primo presidente della Cecoslovacchia: “La maggior parte dei filosofi ha immaginato uno stato ideale, ma nel corso di tutta la storia solo ad un pensatore è stato concesso di poterlo realizzare, attraverso una concreta azione politica: a Masaryk, appunto”.
Havel ha fatto un secondo tentativo del genere e, come Socrate, scelse senza compromessi di essere in conflitto con il potere. E inaspettatamente, per un concorso di circostanze, ecco che Socrate diviene Pericle: nel dicembre 1989, Havel viene eletto presidente della Cecoslovacchia.
Già nel suo primo discorso in occasione del nuovo anno, il primo gennaio 1990, descrivendo le condizioni dello stato dopo anni di dittatura, pronunciò queste frasi memorabili: “Siamo malati, perché ci siamo abituati a dire una cosa e a pensarne un’altra (…). Penso a tutti noi. Infatti, tutti ci siamo abituati al sistema totalitario e lo abbiamo ritenuto immutabile. In questo modo lo abbiamo tenuto in vita. In altre parole, tutti, anche se, ovviamente, in misura diversa, siamo responsabili per il funzionamento della macchina totalitaria. Nessuno di noi è stato soltanto una vittima, ma tutti ne siamo stati anche i co-autori”.
Il nuovo presidente parlò anche della necessità di far memoria di coloro che “durante la guerra salvarono l’onore delle nostre nazioni, che hanno opposto resistenza ai governi totalitari o che, semplicemente, sono riusciti a rimanere se stessi, a pensare in modo libero”. Parlò della necessità di una giustizia applicata da tribunali indipendenti. Sottolineò che il pericolo maggiore non era rappresentato dai comunisti o dalle “mafie internazionali”. “Il pericolo maggiore”, disse, “sono i nostri difetti: indifferenza verso la cosa pubblica, orgoglio, eccessive ambizioni personali, egoismo”.
Si riferì alla tradizione di Masaryk, che “aveva fondato la politica sui principi morali”. Disse: “Proviamo a far rinascere una politica come quella”, cioè una politica capace di contribuire alla felicità dell’uomo senza ingannarlo. Infatti, “la politica non deve essere solo l’arte del possibile, soprattutto se con la parola arte si intendono speculazione, calcolo, intrighi, accordi segreti e manovre pragmatiche, ma può anche essere l’arte dell’impossibile, cioè l’arte di rendere migliori se stessi e il mondo”.
Concludendo, disse di sognare “una repubblica umana, al servizio dell’uomo” e per questo di sperare che anche “l’uomo possa essere al servizio della politica”.
Questo era il credo di Socrate ormai divenuto Pericle. La storia della vita di Havel fino al primo gennaio 1990 era stata una specie di bella favola con un finale meraviglioso. In quel momento molti di noi, dissidenti fino al giorno prima, la pensavano allo stesso modo: poiché fino a questo momento era andato tutto bene, anche adesso…
Di lì a poco, però, la favola finì.
XIII − Già nel febbraio 1990, nell’anniversario del febbraio 1948, Havel ebbe una brutta sorpresa. In quel momento era al massimo della popolarità, parlava ad un pubblico ben disposto, ma quando annunciò l’abolizione della pena di morte, si levò un brusio di protesta. “A quanto pare”, disse anni dopo, “per una qualche ragione, la pena di morte piace molto al popolo”. Quello fu uno dei primi segnali della “fine dalla favola”: si era rivelato un altro volto di quella società che per anni aveva tenuto nascoste tutte le sue facce, quelle migliori e quelle peggiori.
Anni dopo (nel 2005) parlò dell’“atmosfera soffocante” che aveva intorno dopo la “fine dalla favola”. Scrisse: “Sembrava che l’ideale della solidarietà fosse al di sopra di tutto, invece in sostanza si trattava dell’ideale della mediocrità, della banalità, di un oscurantismo piccolo borghese (…). Fu allora che l’ostilità verso gli ex dissidenti raggiunse il suo apice”.
Molti anni dopo annotò: “Subito dopo la rivoluzione, e dopo la riconquista della libertà, si diffuse un’ossessione anticomunista molto particolare. Come se alcuni, che per anni avevano taciuto (…) ed erano stati ben attenti a non esporsi, improvvisamente sentissero il bisogno di reagire con grandi gesti alle precedenti umiliazioni o alla consapevolezza di non essere stati all’altezza. Per questo presero di mira coloro che meno di altri li giudicavano, cioè i dissidenti. Infatti, per loro erano una spina nel fianco, l’esempio del fatto che, volendolo, era stato possibile non essere completamente sottomessi.
È curioso che negli anni in cui i dissidenti sembravano un gruppo di folli don Chisciotte, l’ostilità nei loro confronti non era stata così forte come negli anni successivi, quando la storia aveva dato loro ragione. Questo era troppo, questo era imperdonabile! E quanto più era evidente che i dissidenti non rimproveravano nessuno e non accusavano nessuno (e, Dio ce ne scampi, non si ritenevano un esempio per nessuno) tanto più, paradossalmente, cresceva la rabbia contro di loro. Quindi, in ultima analisi, qualsiasi neo anticomunista se la prendeva di più con i dissidenti che con i rappresentanti del vecchio regime.
Da qui nacque la leggenda sull’estremismo di sinistra dei dissidenti, sul loro essere una “élite” chiusa (come possono ritenersi una élite uomini che per interi decenni sono stati chiusi nei locali caldaia o in prigione e non per questo si sentivano superiori?), che non avevano il giusto rispetto per le illuminate istituzioni occidentali, eccetera, eccetera (…). Questa ideologia è ben contenuta in un articolo in cui si affermava che i dissidenti non avevano avuto nessun merito particolare nella caduta del comunismo, il comunismo era caduto grazie ai cittadini «normali» che si erano comportanti in modo «normale», perché, occupandosi solo dei propri interessi, di tanto in tanto avevano rubato un mattone dai cantieri.
Ovviamente, questa interpretazione è molto gradita ad una società che vi trova la conferma ultima della ragionevolezza delle proprie scelte: adesso che possiamo farlo, esaltiamo il capitalismo e condanniamo tutti quelli che lo criticano, mentre un tempo, quando non lo potevamo fare, andavamo obbedientemente a votare per i comunisti (…) per difendere noi stessi. E chi è che non fa altro che agitare sempre le acque? I dissidenti di estrema sinistra”.
Havel vedeva in tutto questo “la piccolezza ceca” e la sua filosofia: “Non immischiarti in questioni non tue, piegati e inchinati: siamo circondati dalle montagne, tutte le tempeste del mondo voleranno sopra le nostre teste, e noi continueremo a razzolare nel nostro cortile”.
“Nella nostra storia – Havel torna spesso su questo concetto – abbiamo visto ripetersi situazioni, in cui la società si è lanciata in un’azione, ma poi i suoi capi hanno fatto un passo indietro (…) hanno ceduto davanti a qualcosa, hanno sacrificato qualcosa, ovviamente sempre per salvare l’esistenza della nazione. La società ne è stata dapprima traumatizzata, ma poi ben presto ha rinunciato a tutto (cioè «ha capito le ragioni dei propri capi»), ed infine è caduta nell’apatia, o addirittura nell’incoscienza (…). Così è accaduto negli anni dopo Monaco, nel periodo del Protettorato, negli anni 50, e nel 1968, dopo l’occupazione sovietica. In un primo momento, si sentono frasi del tipo: «Ci hanno tradito», «Si sono alleati tutti contro di noi», e poi: «Non c’è nessun senso», e alla fine qualcuno lancia il grido del nazionalismo, e arrivano gli slogan sugli «interessi nazionali», e la tacita approvazione della persecuzione di una qualche minoranza. Vince la «super-cechicità» nella sua versione peggiore”.
Il “Super-ceco” è il simbolo dell’oscurantismo e dell’odio verso tutti coloro che la pensano in modo diverso. E allora, ecco gli appelli: “Liberiamoci degli Ebrei, poi dei Tedeschi, poi dei borghesi, poi dei dissidenti, poi degli Slovacchi – e chi sarà il prossimo? I Rom? Gli omosessuali? Tutti gli stranieri? Chi rimarrà qui? I «Super-cechi» dal sangue puro, nel loro cortile”.
Dopo il 1989, il “Super-ceco” ha trovato una formula più sottile: l’antieuropeismo che però secondo Havel racchiude “un identico rapporto con il mondo: perché mai dobbiamo consultarci con qualcuno? Perché dobbiamo ascoltare un altro? Perché dobbiamo condividere il potere con un estraneo? Perché dobbiamo aiutare uno straniero? A cosa ci servono le loro norme tecniche? (…) «Noi ce la facciamo da soli», e questo altro non è se non il nuovo volto della «super-cechicità»”.
“Ma attenzione” –sottolinea Havel – “il «Super-ceco» ha il coraggio di mostrare i denti e di strillare i suoi slogan di guerra, solo quando non c’è niente che lo minacci. Invece, se ha a che fare con un avversario forte, abbassa le orecchie e diventa servile”.
Penso che ami davvero la propria patria solo chi ha il coraggio di dirle le verità più scomode.
XIV − Dopo qualche decina d’anni (settembre 2002), Havel disse: “Solo adesso comincio a capire che in realtà tutto questo non è stato altro che una diabolica trappola del destino. Infatti, da un giorno all’altro sono stato catapultato nel mondo delle favole, per poi crollare a terra e rimanervi per molti anni”.
Queste parole di Havel mi stupirono molto: per lui il mondo delle favole era cominciato quando fu eletto presidente; per me in quel momento la favola era già finita. Infatti, fin dai primi giorni di libertà cominciò il tempo della lotta con quella dura materia che è la realtà. I discorsi di Havel Presidente riflettono in modo perfetto i dilemmi e le ambiguità, i successi e le delusioni di quel periodo.
Nell’agosto del 1990, cogliendo di sorpresa molti amici, Havel disse: “la nostra rivoluzione è incompiuta”, perché dietro i problemi quotidiani “si celano i tentacoli di mafie invisibili”, che cercano “di impadronirsi di un patrimonio che non appartiene loro, di creare delle società per azioni sospette, di trovare il modo per far fruttare capitali ottenuti illegalmente. In modo invisibile, questi tentacoli si avvinghiano a tutta la nostra economia”.
Erano giudizi sconvolgenti. Nel linguaggio di quel periodo risuonavano come un appello a purghe personali e creavano un clima di terrore davanti ad un nemico onnipresente. Appelli di questo tipo, del resto, si sentivano anche al di fuori della Cecoslovacchia: dopo la fase della lotta per la libertà, era cominciata la fase della lotta per il potere. Secondo una successiva definizione di Havel, “alcuni pensatori nazionali improvvisamente illuminati” si servivano di questi slogan, e degli appelli alla de-comunizzazione e alla lustrazione, per denigrare “coloro che, bene o male, provavano a ripristinare la democrazia”. Per questo mi sono chiesto più volte se quelle formule “rivoluzione incompiuta” e “tentacoli invisibili” esprimessero una vera convinzione di Havel, o se egli stesse usando tatticamente gli slogan dei populisti radicali per dare un altro significato a quelle parole, che suonavano così minacciose.
Non so rispondere a questa domanda. In ogni caso penso che, se Havel ha sbagliato la diagnosi parlando di “rivoluzione incompiuta”, certamente non intendeva scatenare una “caccia alle streghe” e non auspicava lo scoppio di un’ondata di odio post-rivoluzionario. Sicuramente egli comprendeva bene il senso della tattica in politica, ma non accettò mai la tesi secondo cui “la politica deve essere sporca”. Ripeteva cocciutamente: “Chi dice che la politica è sporca, la rende sporca”.
Anche per questo, nei suoi discorsi era molto diretto e brutalmente sincero, anche quando parlava dei propri errori e delle proprie illusioni. Riconosceva spesso di peccare di impazienza. “Ho ceduto alla convinzione idiota di essere il signore sovrano della realtà” − ammise − “Questo è stato un errore!”.
La storia cambia per gradi e per accelerare il cambiamento non la si deve manipolare violentemente. Il mondo non è una macchina. “Bisogna seminare la semente e con pazienza innaffiare la terra che la copre, lasciando alla pianta tutto il tempo di cui ha bisogno. Non possiamo ingannare la pianta, e neppure la storia. Anch’essa va innaffiata e curata. Con pazienza, umiltà e amore”.
XV − Havel fece anche osservare che la perdita dei vecchi valori e un certo vuoto assiologico generano frustrazione. E la frustrazione provoca tendenze pericolose: si cominciano a chiedere un governo dal pugno di ferro e uno stato nazionalistico, etnicamente “puro”. Si comincia a cercare il “colpevole della frustrazione, per sconfiggerlo e curare così la ferita inferta al sentimento del proprio valore”.
Nel 1993 Havel fece un elenco: “il significativo aumento della criminalità, la violenza collettiva, l’intolleranza, il razzismo, l’antisemitismo, la xenofobia cui si resta indifferenti, la crescente corruzione, la «febbre dell’oro» e la convinzione che la vita sia una jungla, che homo hominis lupus sono i sintomi più evidenti della particolare condizione in cui si trova la società dopo il crollo del sistema di valori dello stato totalitario”. Da qui nasce un atteggiamento di generale sospetto, la ricerca degli scandali, “questo sbraitare per soffocare i propri complessi”. Tornano sulla scena le tradizioni peggiori della storia ceca: il provincialismo, il servilismo davanti ai potenti e la brutalità davanti ai deboli, il tentativo di “scivolare nella storia ad ogni costo, anche a costo di perdere la faccia”.
Leggendo queste parole così dure di Havel, uomo mite e delicato, ho pensato che stavo leggendo un rapporto dall’“inferno polacco” di quegli anni e degli anni seguenti.
Nonostante l’evidente successo della trasformazione democratica, Havel subì anche alcune sconfitte dolorose. Una di queste fu il dissolvimento della repubblica cecoslovacca. Havel era contrario, e fece molto per costruire “una vera federazione democratica, in cui potessero sentirsi bene tutti”. Ma dovette riconoscere che “questi sforzi non ebbero successo”.
Havel è sempre rimasto fedele alla sua convinzione che le istituzioni della società civile avessero un grande valore. Era convinto che “lo stato democratico non possa essere composto unicamente dall’amministrazione, dai partiti politici e dalle aziende private”, perché in uno stato di tal genere “la nostra vita si appiattirebbe, appassirebbe, si ridurrebbe solo alla ricerca del guadagno”.
Questa posizione fu oggetto di conflitto, spesso mascherato, con Vaclav Klause. Havel fece un’allusione molto chiara: “Oggi sentiamo spesso la parola «standardizzato»: creiamo un’economia di mercato standardizzata, un sistema politico standardizzato, partiti standardizzati, votiamo decreti e leggi standardizzati (…), guardiamo pubblicità standardizzate … Però dovremmo stare attenti a non cominciare a professare la fede nella «standardizzazione» in quanto tale (…). Perché è la vita stessa a non essere un fenomeno standardizzato, e sarei terrorizzato da un mondo che mi imponesse di avere una moglie standardizzata, un sorriso standardizzato o un’anima standardizzata, o di essere uno scrittore o un presidente standardizzato.
Sì, certo, vorrei una società civile standardizzata. Ma questo che cosa significa? Nient’altro che il rispetto per tutto ciò che non è standardizzato, che è eccezionale, non comune, individuale, o addirittura, in un modo o nell’altro, provocatorio. Questo significa avere rispetto per la vita e il suo mistero, avere fiducia nell’animo umano e simpatia per tutti gli esseri non standardizzati, che sono felici nel rendere felici gli altri”.
Havel ha sempre, e con coerenza, criticato di qualsiasi stato ideologico: la Seconda Guerra Mondiale e la guerra in Jugoslavia hanno mostrato l’essenza dello “stato etnicamente puro”. Il comunismo ha mostrato l’essenza dello stato “ideologico e classista”. L’idea dello stato religioso è evidente nel fondamentalismo di alcuni stati islamici. “Un’ideologia che costruisce lo stato unicamente su ciò che divide gli uomini, non può che portare alla violenza”.
“Oggi uno stato fondato sui principi civili, sui principi che uniscono gli uomini e non su quelli che li dividono, e non soffocano nessuna diversa identità dell’uomo” è l’unica alternativa ad uno stato programmaticamente nazionalista. La condizione per realizzare uno stato di questo genere è l’esistenza della società civile.
Havel non era un cosmopolita. Ha sempre sottolineato il proprio orgoglio per la sua identità ceca e per la tradizione ceca resa illustre dai nomi di Hus e Comneno, Masaryk e Patocka. Ma, come ogni vero patriota democratico, sapeva anche guardare criticamente ai momenti oscuri della storia della sua patria.
XVI − Già nella lettera ad Aleksandr Dubcek (1969), Vaclav Havel aveva ricordato l’esempio di Edward Benes e il 1938.
“In quel periodo, proprio voi, i comunisti, rifiutaste decisamente la suggestiva ideologia della capitolazione, perché avevate giustamente compreso che una sconfitta di fatto non deve significare anche una sconfitta morale, che una vittoria morale, con il passare del tempo, può trasformarsi in successo, ma questo non potrà mai accadere ad una sconfitta morale”.
Alla radice del drammatico dilemma di Benes c’era il tradimento suicida della Francia e della Gran Bretagna, che consegnarono la Cecoslovacchia nelle mani di Hitler. Benes si trovò davanti ad una scelta: combattere da solo Hitler, o capitolare?
“Sapeva bene” – scrisse Havel – “che era giusto non cedere a quel diktat e decidere di difendere il paese. Ma sapeva anche che cosa poteva significare: decine o centinaia di migliaia di vittime, distruzioni belliche e (…) una sconfitta davanti ad un nemico incomparabilmente più forte. Sapeva che quella decisione avrebbe certamente suscitato le incomprensioni e le proteste del mondo democratico, che avrebbe considerato Benes il distruttore della pace, un provocatore e un azzardato che sperava ingenuamente di coinvolgere anche le altre nazioni in una guerra inutile. Decise, quindi, di capitolare senza combattere, perché gli sembrò una posizione più responsabile rispetto al rischio di una sconfitta che sarebbe costata tante vittime”.
Il risultato della capitolazione di Benes del 1938, ed anche di quella del 1948, provocò un “profondo trauma nella società e la perdita per molto tempo dei suoi valori morali”. Fece la sua comparsa anche un “particolare tipo di frustrazione”: la democrazia si era arresa senza combattere. Havel riconobbe onestamente che negli anni della dissidenza aveva sempre giudicato la decisione di Benes un “errore fatale”, e che in quegli anni non gli era difficile avere un giudizio netto. Adesso, invece, che era divenuto presidente, aveva la consapevolezza del peso che grava su chi è responsabile “del destino dei propri concittadini e dei loro discendenti”.
E nel 1995 si chiese che cosa avrebbe fatto al posto dei suoi predecessori. Rispose prudentemente: “non lo so”. La scelta di una resistenza armata avrebbe certamente causato molte vittime e sofferenze. Però, forse, avrebbe evitato altre perdite “provocate da una ferita così all’integrità morale della comunità nazionale”.
Havel disse sinteticamente: “Penso solo che avrei preso decisioni diverse dalle loro”. Però non escluse di pensarla così, perché sapeva “quello che loro non sapevano: a che cosa avrebbero portato quelle decisioni”.
“In ultima analisi” – aggiunse – “mi sarei rivolto alla mia coscienza, al mio istinto morale, a ciò che è in me e mi trascende”.
Leggendo le riflessioni di Havel, mi sono soffermato spesso sul dilemma di Benes. Comprendo l’assiologia di Havel, ma comprendo anche le argomentazioni di Benes. Ognuno ha il diritto di rischiare la propria vita: Havel lo ha fatto sopportando delle conseguenze che meritano tutta la nostra ammirazione. Ma è lecito mettere a repentaglio la vita di centinaia di migliaia di persone?
Max Weber vedeva in questo il conflitto tra l’etica delle convinzioni e l’etica della responsabilità. Havel lo ha definito come conflitto tra il pragmatismo e la morale. Per un politico onesto spesso questa è una scelta tragica: questo è, infatti, il senso di tutto il dibattito sul “male minore”. Nella situazione dei Cechi del 1938, ritengo che la resistenza fosse indispensabile, e che invece il confronto militare (a meno che non fosse stato solo simbolico), forse, sarebbe stato un errore. In questo deve consistere la saggezza politica di “una piccola nazione”.
Del resto, Havel precisò il proprio punto di vista nell’intervista fiume con Karel Hvizd’ala: “Se lei vuole sacrificare la vita per la libertà di tutti noi, può farlo. Posso farlo anch’io. Ma né lei, né io, abbiamo il diritto di costringere qualcun altro a farlo o di sacrificare la vita di chicchessia, senza chiedergli il permesso”.
Dopo qualche tempo, tornò nel dibattito europeo il tema delle cosiddette deportazioni, e con esso dei decreti di Benes sull’espulsione dei Tedeschi dalla Cecoslovacchia. Per alcuni politici tedeschi Benes era il simbolo del male. Havel allora scrisse un articolo dedicato ai dilemmi di Benes.
In quell’occasione pose l’accento su alcuni punti. Ricordò di essere sempre stato critico verso la decisione di Benes di capitolare nel 1938, e verso i decreti sulla deportazione di un milione di Tedeschi dal territorio della Cecoslovacchia dopo la sconfitta del Terzo Reich. Al tempo stesso, ricordò tutto ciò che Benes aveva realizzato: nel 1930 aveva incarnato le migliori tradizioni democratiche europee, era stato uno degli artefici della Lega delle Nazioni, aveva messo in guardia dal nazismo e “aveva cercato di strappare dal sonno l’Occidente. Purtroppo senza risultati”. Hitler aveva mandato in campo di concentramento i parenti di Benes. Durante l’emigrazione a Londra, era diventato il simbolo della lotta dei Cechi contro il nazismo, come De Gaulle lo era stato per i Francesi.
Perché aveva ritenuto che per una pace duratura fosse necessario espellere i Tedeschi? Scrisse Havel: “Possiamo rispondere a questa domanda in modo superficiale, e mettere sullo stesso piano Benes, Stalin e Milosevic, ma questo sarebbe veramente troppo riduttivo. Infatti, anche politici del calibro di Churchill e Roosvelt erano convinti, come il presidente della Cecoslovacchia, che l’espulsione fosse indispensabile”.
Allo stesso tempo, Havel individuò la ragione segreta della campagna anti-Benes scatenata dall’Associazione dei deportati: “Dobbiamo chiederci se, scaricando tutta la responsabilità su un uomo solo, non ci sia per caso qualcuno che vuole sfuggire alle proprie responsabilità”.
Le affermazioni di Havel su Benes non contengono giudizi diversi, ma è il contesto in cui vennero pronunciate ad essere diverso. Il primo articolo di Havel era rivolto ai Cechi, e la sua linea era la ricerca della verità nel linguaggio dell’etica delle convinzioni; nel secondo articolo scriveva agli stranieri e la sua linea era la ricerca della verità nel linguaggio dell’etica della responsabilità.
XVII − La tensione fra l’etica delle convinzioni e l’etica della responsabilità accompagnò anche l’azione politica di Havel presidente. Egli si trovò di fronte ad un dilemma difficile: “Il parlamento ha deliberato una legge, che dal punto di vista morale ritengo cattiva, ma che secondo la costituzione devo firmare”.
Si trattava della legge che proibiva di lavorare per l’amministrazione statale a chi in passato aveva violato i diritti umani.
Secondo Havel, “questa legge si basa sul principio della responsabilità collettiva e proibisce ad alcune persone di svolgere determinate funzioni, unicamente per la loro passata appartenenza a determinate organizzazioni, o istituzioni, descritte in modo sommario, senza riconoscere loro il diritto ad essere giudicate individualmente, e questo costituisce un’evidente violazione dei principi dello stato democratico di diritto. Inoltre, in questo caso i documenti interni della polizia segreta comunista sono l’unica, più autorevole, e definitiva «testimonianza di moralità»”.
Ricordo le discussioni su questa legge. Personalmente la giudicavo molto più negativamente di quanto non facesse Havel e gli consigliai di non firmarla. Vi scorgevo un elemento della strategia dei populisti radicali, che volevano trasformare l’anticomunismo d’ufficio in ideologia della repubblica. Vaclav, nel suo giudizio, era più prudente. Scrisse: “E’ una legge molto severa, ma si tratta di una norma straordinaria e necessaria. Però, dal punto di vista dei diritti umani fondamentali è una legge che solleva molti problemi”.
Rifiutarsi di firmare poteva scatenare un conflitto aperto tra il presidente e il parlamento e una crisi politica nello stato. Spiegò Havel: “Sarebbe stato un gesto di disobbedienza civile tipica del dissidente, moralmente ineccepibile, ma politicamente molto rischioso”.
Havel firmò la legge. Essa apriva la strada ad una “lustrazione selvaggia”. In un’intervista per “Gazeta Wyborcza” disse che “la pubblicazione su «Rude Pravo» della lista dei supposti collaboratori dei Servizi di Sicurezza causò molte tragedie umane”. I due autori di quella pubblicazione (d’altro canto ex firmatari di Charta ’77) intentarono ad Havel una causa per diffamazione. La dichiarazione di Havel al tribunale di Praga è un classico della pubblicistica anti lustrazione.
L’imputato Havel citò molte delle lettere che aveva ricevuto, che descrivevano le tragedie umane provocate dalla pubblicazione della lista. Le persone della lista, benché spesso fossero assolutamente innocenti, “furono diffamate per sempre senza nessuna possibilità di ripulirsi”.
Disse ancora Havel: “Molte persone si sono ritrovate sulla lista senza saperlo, molte altre perché avevano accettato un invito di qualche agente segreto al ristorante, altre, invece, hanno ceduto e hanno firmato un qualche pezzo di carta, perché si trovavano in un momento di difficoltà (di cui voi qui presenti, che mi accusate, non potete neppure avere una vaga idea), erano straziate fisicamente e psicologicamente, o erano ricattate nei modi più diversi, il più delle volte erano minacciate di ritorsioni sui loro figli, o i loro parenti. Spesso non sapevano neppure che cosa stessero firmando; spesso la cosa finì con quella firma apposta qualche decennio prima, perché in seguito queste persone trovarono il coraggio di rifiutarsi di collaborare, e per questo furono poi punite”.
E aggiunse: “Non escludo che una parte di coloro che mi hanno scritto abbia una coscienza non totalmente pulita, e cerchi di presentare di se stesso un’immagine migliore di quanto non sia in realtà”.
Poi si chiese: “Però, sulla base di quale diritto, una persona può essere condannata senza processo, in modo selvaggio e sospetto, senza darle la possibilità di difendersi? Sulla base di quale diritto devono soffrire i suoi figli e i suoi parenti, che non sapevano niente di quel suo momento di debolezza? Perché devono essere messi alla berlina uomini ormai defunti, che si sono portati la propria storia nella tomba?
La nostra società per interi decenni ha subito le illegalità di un potere, che non esitava ad usare tutti gli strumenti della violenza e del ricatto (…). Tenevano in ostaggio soprattutto i figli, perché il loro futuro dipendeva dall’obbedienza dei genitori. La nostra nazione, come altre, non è composta solo da eroi, e per questo molti hanno cercato, più o meno bene, di ingannare il potere, appagandolo con piccole concessioni, senza consegnargli l’anima, ad esempio riferendo colloqui del tutto innocenti con gli inquisiti. Ma relazioni di questo genere hanno potuto far iscrivere decine di persone nei registri della polizia.
Le ricerche serie ci dimostrano che i delatori attivi erano una minoranza, mentre la maggior parte delle persone contenute nelle liste sono colpevoli solo di avere accettato un contatto passivo con i servizi di sicurezza, o addirittura non hanno fatto neppure questo. In gran parte, le persone di queste liste erano state perseguitate e avevano sofferto in un modo che difficilmente possono immaginare coloro che sono riusciti a scivolare indenni attraverso la vecchia epoca solo perché valevano così poco da non suscitare alcun interesse nei servizi di sicurezza.
Le cosiddette liste dei cosiddetti collaboratori dei servizi hanno un’origine molto poco chiara, sono piene di dati sbagliati e molte cose fanno supporre che siano opera di qualche astuto «disinformatore» che milita nelle fila dei servizi, e questo vale sia per coloro che negli anni le hanno compilate, sia per coloro che le hanno passate alla stampa (…). Ritengo che tutta questa faccenda sia uno dei maggiori successi dei servizi segreti. Per molti anni sono riusciti ad avvelenare l’atmosfera dello stato democratico, a mobilitare la plebaglia, che gode soprattutto quando riesce a far del male agli altri, e a metterle cinicamente in mano la bandiera dell’anticomunismo (…).
Questi giudici auto referenziati che siedono qui, sul banco dell’accusa, non sono altro che i continuatori dell’ideologia comunista dell’odio, della vendetta e delle violazioni della legge tipiche del totalitarismo. Quello che hanno scritto è soltanto una cloaca che diffonde male e odio”.
Vaclav Havel, presidente-dissidente, fece una diagnosi perfetta. In quanto presidente si lasciò guidare dall’etica della responsabilità, in quanto accusato attinse all’etica delle convinzioni del dissidente.
XVIII − Negli scritti di Havel non c’è mai odio. Una volta ammise di non essere capace di odiare. La sua divisa, spesso schernita dai cinici, dai furbi e dagli stupidi, era questa frase: “La verità e l’amore devono vincere sulla menzogna e sull’odio”.
Però, Havel sapeva anche osservare con attenzione, benché senza alcuna empatia, “gli uomini dell’odio”. Descrisse le sue osservazioni nel magnifico saggio Anatomia dell’odio; si tratta di una conferenza pronunciata nell’estate del 1990 ad Oslo. Ascoltai quella conferenza e ricordo bene che fui affascinato dalla semplicità e dalla logica ferrea di quelle riflessioni.
E allora, chi sono secondo Havel “gli uomini dell’odio”? Sono persone molto operose. “Il loro odio mi sembra sempre che nasca da un qualche grande sogno incompiuto (…), o da un’enorme ambizione (…). Si tratta di uomini che si sentono sempre, ostinatamente ed esageratamente vittime di un torto (…). Vorrebbero essere stimati ed amati da tutti, e sono dolorosamente convinti che gli altri siano ingiusti ed ingrati nei loro confronti, poiché non solo non li rispettano e non li ammirano come dovrebbero, ma al contrario – per lo meno così pensano – li disprezzano (…).
Chi odia, inconsciamente, crede di essere l’unico vero depositario della verità e quindi di essere una specie di super uomo, o addirittura di essere un dio (…). L’odio è la caratteristica diabolica dell’angelo caduto: è la condizione di un’anima che vorrebbe essere Dio, o crede di esserlo, che però sperimenta continuamente e dolorosamente di non esserlo (…). Per chi odia, l’odio in sé è più importante dell’oggetto cui è rivolto, e quindi riesce a cambiare oggetto molto rapidamente, benché il suo atteggiamento di fondo non muti (…).
Chi odia, non sa sorridere, sa solo fare delle smorfie. Non è capace di vera ironia, perché non conosce l’autoironia. Infatti, sa ridere veramente solo chi sa ridere di se stesso (…). Chi odia un singolo uomo, è capace quasi sempre di cedere all’odio collettivo e di diffonderlo attivamente (…).
L’odio collettivo libera gli uomini dalla solitudine, dal senso di abbandono e di impotenza e dall’anonimato, e per questo li libera dal complesso di essere sottovalutati e di non avere successo. Infatti, propone loro una comunità e crea una sorta particolare di fratellanza (…). Questi uomini possono continuamente rassicurarsi a vicenda sul proprio valore, facendo a gara nel mostrare il proprio odio per il gruppo in cui individuano i supposti colpevoli dei torti da loro subiti.”
L’odio collettivo nasce in modo impercettibile. “Infatti, c’è tutta una serie di gradi del pensiero collettivo, apparentemente innocenti, che inavvertitamente, ma inesorabilmente gettano le basi per i successivi livelli dell’odio, ci sono dei campi fertili ed ubertosi in cui i semi attecchiscono facilmente e cominciano a germogliare abbondantemente”.
In conclusione Havel osserva: “Diversi osservatori ritengono che l’attuale (1990) Europa Centro Orientale sia una potenziale polveriera, perché sarebbe un territorio in cui si stanno diffondendo nazionalismi, intolleranze etniche e in cui si vedono molti segnali di odio collettivo (…). Non condivido il pessimismo di questi osservatori, anche se riconosco che se non saremo vigili e non avremo un grande buon senso, questa parte d’Europa potrebbe diventare la miccia per un’esplosione di odio collettivo”.
Vaclav Havel fu vigile e mostrò sempre grande buon senso in tutti gli anni a seguire.
Queste citazioni danno un’immagine della profondità delle riflessioni di Havel sul tema dell’odio. Chi ha osservato le vicende delle trasformazioni delle società postcomuniste, e soprattutto la tragedia della guerra in Jugoslavia, può facilmente apprezzarne la precisione. Per questo, il saggio di Havel dovrebbe diventare una lettura obbligatoria nelle scuole di tutti i paesi dell’Europa Centro Orientale.
XIX − È impossibile prendere in esame tutta la ricchezza degli scritti di Vaclav Havel, nemmeno con un articolo molto più lungo di questo. È saggistica al massimo livello, dello stesso livello della saggistica di George Orwell e Hanna Arendt, Josif Brodski e Istvan Bibò, Leszek Kolakowski e Czeslaw Milosz. Havel è uno scrittore estremamente sensibile all’annuncio cristiano. Si è detto convinto che “alla base di tutte le religioni ci sono le idee di tolleranza, aiuto al prossimo e comprensione dell’altro, cioè semplicemente le idee del bene che Dio si aspetta dall’uomo”.
Ricevendo nel 1999 il premio di san Wojciech (sant’Adalberto, ndt), disse del santo patrono:
“Nelle sue azioni terrene riportò, di fatto, solo sconfitte, fu incompreso, continuamente perseguitato dal destino e dal suo ambiente”. E allora chi è per i nostri giorni? “E’ lo specchio della nostra piccolezza e del nostro egoismo, è un continuo richiamo per la nostra coscienza”. “Il suo annuncio è un delicato, ma continuo, smuovere l’acqua stagnante, facendoci vedere che ci stiamo allontanando dagli ideali in nome della cosiddetta realtà”.
Non sono uno specialista della storia di san Wojciech, però ritengo che gli storici parleranno di Havel nello stesso modo, anche se Havel in politica non ha subito un così gran numero di sconfitte: anche di lui scriveranno che è stato la coscienza del suo tempo, un profeta in mezzo ai pragmatici, uno che smuoveva l’acqua ferma dello stagno europeo.
Oggi Havel non è più un politico. È di nuovo uno scrittore originale e indomito, che non lascia tranquilli. Ma è stato anche un tipo particolare di politico, come Martin Luther King, il Mahatma Gandhi, Nelson Mandela, Andrej Sacharov, Jacek Kuron; in politica è stato un uomo della testimonianza, una delle grandi autorità morali del proprio tempo.
Inoltre, è stato un presidente assolutamente non banale, perché non è banale come uomo. Si sentiva legato alla tradizione della contestazione del 1968; ha detto di sé: “sono della generazione dei Beatles”. Guardava con simpatia al movimento degli hippies, alla musica e all’arte degli anni 60, ai ragazzi e alle ragazze che passeggiavano scalzi per New York con le catenine al collo.
Da dissidente adorava la musica dei Rolling Stones o di Franck Zappa, che poi da presidente ospitò a Praga. Sempre da dissidente organizzò la protesta di massa contro il processo ai musicisti del gruppo “The Plastic People of the Universe”. Vide nella loro musica e nel loro atteggiamento “l’espressione degli uomini oppressi dalla miseria di questo mondo”, una purezza e un pudore e una tristezza metafisica. La protesta contro il processo ai Plastic People unì i più diversi ambiti dell’opposizione, e portò alla nascita di Charta ’77. Anni dopo, da presidente, Havel partecipava volentieri ai concerti dei Plastic.
Da dissidente, era un lettore appassionato della filosofia di Heidegger, di Patocka e di Levinas, e possiamo ritrovare facilmente le tracce di questa sua passione nei discorsi che pronunciò da presidente.
Quando era ancora un letterato alle prime armi, fu il primo a scrivere un saggio sui testi di Bohumil Hrabal; da presidente della repubblica, invitò Hrabal a bere un boccale di birra con il presidente degli Stati Uniti Bill Clinton.
Non trovava piacere negli incontri con il primo ministro Vaclav Klaus. Erano diversi in tutto: nel temperamento, nella statura, nel sistema di valori, nella biografia, nel senso dell’umorismo. Klaus era abile e diligente, ma era anche un narcisista senza scrupoli, un uomo di cui Havel scrisse: “o teme qualcuno, o umilia qualcuno”.
Dopo le prime elezioni democratiche al parlamento, il Forum Civico Ceco e la slovacca Società Contro la Violenza decisero insieme che Klaus non sarebbe stato il ministro delle finanze del nuovo governo. Gli Slovacchi volevano quel ministero. Ad Havel, in quanto presidente, fu affidato “lo sgradito compito” di informare Klaus che non sarebbe diventato ministro, ma presidente della Banca Nazionale.
“Purtroppo” – scrive Havel – “ho fallito vergognosamente quella missione. Quando lo dissi a Klaus, mi rispose che era escluso, che tutto il mondo lo conosceva come ministro cecoslovacco delle finanze, che non poteva ricoprire nessun altro incarico e che la sua uscita dal governo sarebbe stata una catastrofe per tutto il paese. E io, invece di dirgli che quella era la decisione della forza politica che aveva vinto le elezioni e che se non voleva andare alla Banca, poteva fare quello che gli pareva, cedetti con educazione e mormorai qualcosa del tipo «Sì, va bene». Il Forum Civico si arrabbiò con me, perché non avevo fatto quello che dovevo, e l’ostilità di Klaus nei miei confronti si trasformò in odio. Mi comportai veramente da pessimo politico: non avevo fatto quello che avevo promesso e in più ero riuscito a far arrabbiare tutti”.
Lo si vede benissimo nel film Il cittadino Havel, documentario fiume girato durante entrambi i suoi mandati presidenziali. Quanti politici sanno parlare di sé con questo distacco e questa ironia?
Havel è stato un politico atipico. Infastidiva per il suo idealismo, per il suo modo di dire la verità, per il coraggio con cui si opponeva all’opinione pubblica istupidita. Ha realizzato una politica che veniva dalla convinzione che “benché nessuno di noi da solo” possa salvare il mondo, tuttavia egli doveva “agire come se lo potessi fare”.
Parlando così, era irritante. In questo senso non è stato un politico dei suoi tempi, benché abbia lasciato un segno forte sul proprio tempo.
Quindi, in politica chi era? Era – ripeto una metafora di Havel – “come l’albatros di Baudelaire – che continuamente si solleva un po’ da terra, perché un paio di «enormi ali» disturbano il suo calpestio”.
Questo albatros della politica ceca ha cocciutamente fatto i conti con una domanda evidentemente non politica: con la domanda sul senso della vita. Per lui questa domanda si identificava con la domanda religiosa sull’“orizzonte assoluto”.
XX − Jan Patocka aveva messo a confronto le tradizioni della grande storia ceca e della piccola storia ceca. G. Masaryk era il simbolo della prima: un uomo coraggioso, deciso e coerente. Benes era il simbolo della seconda: “una mediocrità ambiziosa, diligente, chiacchierona, un uomo debole”. Scrive Patocka: “E su un uomo del genere ricadde (nel 1938) il fardello di decidere il futuro profilo morale della nazione ceca. Dovette scegliere, e scelse la meschinità”.
Non so se Patocka sia troppo severo nei confronti di Benes. So, però, che Havel ha guidato i Cechi sul cammino della Grande Storia.
Continueranno a percorrerlo?