C’è un evidente paradosso in questo 8 marzo 2013 in cui si celebra l’annuale giornata internazionale della donna (la Festa della Donna). Nel momento storico in cui molti temi delle tradizionali battaglie femministe hanno acquisito un senso comune diffuso fino ad assumere un’importanza programmatica e identitaria rilevantissima per molti soggetti politici, la festa della donna sembra essere inghiottita in una cornice celebrativa stanca e ripetitiva, con dei tratti perfino grotteschi, che mette assieme, convulsamente e disordinatamente, convegni e mimose, articoli e cenoni, spettacoli e striptease. Insomma, alla rilevanza politica che hanno assunto temi come il lavoro delle donne, la maternità, la procreazione assistita e la contraccezione sembra far da contrappeso una ritualità goffa e stantia che appare la lontanissima controfigura di quelle forme di partecipazione che si potevano rintracciare in moltissime città italiane fino a qualche decennio fa in cui regnava, invece, un afflato emotivo quasi sacrale.
E non a caso, negli ultimi anni non sono mancate le provocazioni di chi, riconoscendo questa stanchezza celebrativa, ha messo all’ordine del giorno, addirittura, la proposta di abolizione della festa. Nel 2012 persino il laicissimo Le Monde arrivò ad adombrarne la soppressione. Naturalmente, in nome di una narrazione politicamente corretta, spiegò che non si poteva ricordarsi delle donne solo un giorno all’anno ma era doveroso interrogarsi sulla questione femminile anche durante gli altri 365 giorni. In realtà, il giornale francese toccava, forse un po’ pavidamente, il nervo scoperto di quella celebrazione: ovvero il suo significato profondo e il suo orizzonte culturale. Quali sono i riferimenti simbolico-ideali dell’8 marzo? E quali rivendicazioni politiche, oggi, sono al primo posto dell’agenda pubblica?
Interrogativi centrali per almeno due motivi. Da un lato, perché richiamano alla mente l’enorme complessità e la diversa stratificazione del movimento delle donne. Rimandano, sostanzialmente, ad un deposito storico imponente che si riconnette direttamente con il fenomeno della modernità – anche se è il 900 il secolo che, più di ogni altro, sancisce la presenza e la rilevanza storica delle donne – e che finora ha tenuto assieme, simbolicamente, esperienze e biografie diversissime, dalla socialista Clara Zetkin fino alla cattolica Armida Barelli.
Dall’altro lato, perché al di là di ogni aspetto simbolico e di testimonianza storica, il pensiero elaborato da molte donne, di diversa estrazione e provenienza socio-culturale, su ciò che concerne i grandi temi bioetici e della vita, ha assunto ormai una rilevanza fondamentale. Una rilevanza che non investe più soltanto “il corpo delle donne” ma si riferisce, direttamente, alle viscere profonde della società moderna e va a sfociare, com’è noto, nella discussione sul “genere” e sulla nozione naturale e/o culturale della famiglia. Insomma, si parte dalla “donna” e si arriva fino alle strutture fondanti della società.
Proprio per questi motivi, mettere, oggi, la “questione femminile” al centro del discorso pubblico assume significati profondamente differenti da quelli che potevano scaturire come ovvi fino a poco tempo fa. E sostanzialmente, al netto di ogni retorica del passato e di ogni provocazione odierna, la “questione femminile” rimanda a due processi decisivi nello sviluppo della società.
Innanzitutto, perché rimanda ad un cammino di emancipazione che rappresenta indubbiamente uno dei più potenti e significativi lasciti del 900. Un processo di mutamento sociale di carattere epocale che non ha eguali nella storia dell’umanità e che ancora oggi non può certo dirsi compiuto, basti pensare, solo per fare due esempi, al rapporto dolorosissimo tra maternità e lavoro che è tornato prepotentemente alla luce per le giovani donne o alla piaga degradante della violenza sulle donne. In secondo luogo, perché pone l’attenzione su un aspetto simbolico-ideologico che ha caratterizzato tutta la società occidentale a partire, grossomodo, dagli anni Sessanta e che potrebbe essere riassunto, usando le parole di Lucetta Scaraffia, nel “mito dell’autorealizzazione egoistica e della rivoluzione sessuale” che “ha ingannato tanti uomini e donne”. Un aspetto che ha portato, progressivamente, una parte del movimento femminista, secondo l’interpretazione di Mary Ann Glendon, a “stringere un accordo faustiano con l’industria dell’aborto, con organizzazioni omosessuali e con gruppi che promuovono il controllo delle nascite”.
Le parole dell’ex ambasciatrice degli Stati Uniti presso la Santa Sede acquisiscono un significato particolare perché rimandano immediatamente alla sfida lanciata, ormai da anni, da un nuovo femminismo. Un neofemminismo che si propone di superare “un’idea dell’emancipazione femminile intesa come liberazione della donna dal proprio destino biologico, cioè come negazione della maternità” per riconoscere, invece, “i diritti umani delle donne in un percorso che sappia valorizzare la specificità femminile”.
Risiede in questa complessità e anche in questa divaricazione tra prospettive culturali differenti che la “questione femminile” assume, oggi, una centralità decisiva. Una centralità che, in futuro, sarà misurata, sempre più, sulle capacità di non omologazione che le donne saranno capaci di mettere in campo. Ovvero, come è stato scritto, nella valorizzazione dell’“uguaglianza nella differenza”.