Leggere gli scritti di Emanuele Severino è sempre un piacere. Un piacere dell’intelligenza. Perché stimolanti, nel senso di un forte invito ad andare ai “fondamentali” della vita, dell’esistenza, delle relazioni, delle implicazioni, dei saperi. Severino, cioè, chiede al lettore di “pensare”, di confrontarsi sulle ragioni e sulle motivazioni. Cosa rara, oggi.



Parlo qui soprattutto dei suoi scritti divulgativi, anticipati per lo piú sul Corriere, e poi raccolti in volume, soprattutto da Rizzoli. Mentre invece gli scritti teoretici, editi da Adelphi, ripetono e riprendono l’antica folgorazione del “principio di Parmenide” come un ininterrotto, tantrico “aum”: l’intera storia occidentale, dai greci al cristianesimo alla scienza-tecnica, sarebbe dominata dalla “follia estrema”, cioè dal senso del divenire come divenire-altro. Mentre la non-follia sarebbe “l’eternità di ogni essente”. Ogni cosa, ogni atto, ha valore in sè, non è funzionale o strumentale ad altro, ad un qualsiasi uso. E questo valore è da sempre e per sempre. Indipendente da ogni volontà, altro modo per dire “volontà di potenza”, cioè di potere e di dominio. Una convinzione che accompagna Severino da sessant’anni, prima in forma implicita, poi, dal 1964, dopo la conquista della cattedra alla Cattolica di Milano, in forma esplicita. In migliaia di pagine.



Nei suoi scritti Severino discute con tutti, con una straordinaria capacità dialettica, intesa come messa in contraddizione delle tesi avversarie. Mentre sono rari i rimandi al significato in positivo della sua filosofia, cosa voglia dire, nel concreto, assumere il divenire dell’essere e degli esseri come il “mostrarsi dell’eterno nel cerchio eterno dell’apparire”. Severino, in questi rari casi, si limita a frammentari rimandi oracolari, non tematizzabili, perché frutto di una rivelazione, in Severino stesso, dell’“inconscio” dell’intero Occidente, quello che indica l’estrema “Necessità”, che è apertura alla “Gioia”. Lui solo avrebbe intuito questo “inconscio”, e quindi la via della Gioia.



A volte mi vien da pensare, leggendolo, che la sua “fede” è figlia di una pretesa: definendo, in ogni pagina, il divenire come l’essere che non è e il non essere che è, si finisce per credere davvero di “pensare l’essere”, di pensarlo nella sua essenza, pensare che è oggettivare, cosa impossibile, perché l’essere è inoggettivabile. Noi stessi, essendo parte dell’essere, non lo possiamo cioè “oggettivare”. Possiamo al massimo, intenzionalmente, credere di cogliere la verità in se stessa. Ma mai pretendere la verità nella sua integralità. 

Mi rendo conto che, dicendo queste cose rischio di cedere a una moda, quella del pensare astruso e poco trasparente.

Severino, però, per tentare di farsi capire dedica notevole spazio ai temi di attualità, cioè gli aspetti concreti della vita e della storia. In termini di valore, di significato, di senso.

Ne è un esempio il recente volume intitolato “Capitalismo senza futuro”, uscito da Rizzoli. Volume che riprende un precedente, sul medesimo argomento, dal titolo “Il declino del capitalismo”, uscito, sempre da Rizzoli, nel 1993.

La tesi è presto detta: “la globalizzazione tecnica è destinata a sostituire la globalizzazione economica”. “Destinata”, che lo si voglia o no. Per l’inversione mezzo-fine: la tecnica, cioè, da mezzo di moltiplicazione della potenza economica del capitalismo, si è trasformata in fine, assorbendo ogni altra forma di sapere, di credo, di convinzione, di azione. Ogni altra.

La tecnica sarebbe cosí diventata la religione dominante il mondo attuale, ma destinata, prima o poi, ad un ennesimo superamento. Verso il non-ancora. Nuove aurore, cioè, si imporranno, in vista − ecco la folgorazione severiniana − di un’aurora finale, cioè la Gioia della non-follia, la percezione dell’eternità di ogni cosa.

Severino, però, offre solo analisi, ma “non dà consigli, non dice ai popoli che cosa devono fare, ma mostra che cosa i popoli sono destinati a volere”. Severino, cioè, non offre un’etica. Si limita a dire che siamo destinati. La nostra libertà sarebbe una pia illusione.

Ma è proprio vero, potremmo chiederci, che la tecnica ha soggiogato tutto e tutti, su tutto il pianeta? Si tratta di una tesi che, nel corso del 900, ha avuto molta fortuna. La novità di Severino è che si tratta del destino dell’intero Occidente. Come se l’Occidente fosse un unico percorso, e l’Oriente una mera variante secondaria di questo percorso.

Dire, poi, “tecnica” implica il richiamo ad una sorta di Apparato planetario, incarnazione globale del nostro vivere umano, e suo progressivo depotenziamento, in termini di valore e di dignità. Perché anche l’uomo, come ogni cosa, sarebbe ridotto a mero strumento, funzionale all’assoluto potenziamento dell’Apparato stesso, il vero governo del Pianeta. Un Apparato tecnico-scientifico che, imponendosi, creerebbe al tempo stesso, secondo una modalità dialettica già analizzata da Hegel e da Marx, le condizioni del suo inveramento, del suo superamento.

L’idea moderna, ad esempio, di Stato, assente nel pensiero antico, non è altro che un modo di essere di questo Apparato. Che tutto decide, controlla, pensa. Lasciando agli individui solo l’illusione di una libertà su concessione: tutto ciò che non è permesso è vietato. Se la vita è mera soddisfazione dei bisogni, solo lo Stato può produrre piena soddisfazione, cioè felicità nella solidarietà. Come il Leviatano.

Le persone non sono fini, in questo quadro, ma solo mezzi. Perché contano il clan, le caste, le corporazioni, le chiese laiche o religiose.

Anche la democrazia, in questa lettura, non è altro che una variante, ma meno invasiva, della logica totalitaria dello Stato-tutto. La cornice sarebbe comunque la stessa: la vita ridotta a soddisfazione dei bisogni, la vita ridotta a bisogno, alla sua infinita moltiplicazione e alla sua infinita e consumistica richiesta di soddisfazione. L’Apparato come inveramento dell’uomo-bisogno, suo senso e valore ultimo. Nasce un nuovo problema? Prima o poi, la tecno-scienza lo risolverà.

Alternative? Severino offre la propria, invocando quella sua antica folgorazione sulla via di Parmenide. Noi, più concretamente, potremmo richiamare un altro sentiero, presente nella storia occidentale, legato alla cultura greca e cristiana. Quella centrato sull’idea di persona, come essere intelligente (anzitutto, e non solo come volontà), intelligente perché capace di conoscere, senza integralismi, la verità delle cose, secondo un’etica della responsabilità. La vita, socraticamente, come ricerca del senso della vita.