Tra gli autori di best seller russi c’è anche Maja Kucerskaja, una signora moscovita senza pose da intellettuale, che insegna all’università, è madre di famiglia e ha persino un marito. Oltre ad occuparsi di critica letteraria scrive dei libri molto letti ed è strano, poiché si tratta di un’autrice ortodossa. I suoi primi best seller, come Il Dio della pioggia, e soprattutto Vita dei santi Padri dei giorni nostri, trattavano del difficile rapporto tra la fede e la modernità, ma lo facevano con una sincerità così disarmante che si sono guadagnati l’interesse di un pubblico molto vario. Da qualche mese ha pubblicato un nuovo romanzo, Zia Motja, che ha suscitato molto interesse e molti commenti, sia positivi che negativi.



Il tema è al femminile ma non come si potrebbe immaginare normalmente: niente autodeterminazione della donna e via discorrendo; è una sorta di indagine su quel mondo sommerso e decisamente matriarcale che è la famiglia russa. Un mondo, dice l’autrice, per cui tutti noi soffriamo o abbiamo sofferto ma di cui nessuno ama parlare; per questo osa lei stessa un paragone audace: “ho scritto l’Anna Karenina del XXI secolo”. Se, infatti, il famoso romanzo di Tolstoj puntava il dito sull’ipocrisia e il vuoto della famiglia borghese di fine Ottocento, che umiliava i sentimenti per sottomettersi alle convenzioni sociali, Kucerskaja scrive di uomini e donne che vivono “alla superficie” e sono così estranei a se stessi, così incapaci di dar voce alle proprie autentiche esigenze, che restano totalmente in balia di sentimenti superficiali, della reattività e degli istinti, cui si riduce lo stesso desiderio di libertà.



La storia è abbastanza semplice, la si potrebbe definire il tipico triangolo sentimentale: lui, lei e l’altro, con in mezzo un bambino; una trentenne moscovita, che lavora come correttrice di bozze, si sente soffocare nel rapporto fiacco e slabbrato col marito, tecnico dei computer; di qui la sua disponibilità psicologica a subire il fascino di un maturo giornalista, uomo interessante e in vista, che la trascina in un’avventura senza sbocchi. Quello che distingue il romanzo da un comune feuilleton sentimentale è il punto di vista dell’autrice, assolutamente non banale: al centro non c’è, infatti, l’intrigo sentimentale in quanto tale, o il teorema femminista e nemmeno l’interesse sociologico (la classica denuncia del maschio immaturo) ma il tentativo di riflettere, con gli strumenti della letteratura, su una condizione umana generale che interroga profondamente l’autrice.



La crisi familiare, la parabola dell’avventura extraconiugale fanno da sfondo all’affiorare di domande al tempo stesso personali e universali: come posso essere felice? Cosa mi aspetto dalla vita? Cos’è il matrimonio? Come convivono amore e libertà? Nei dialoghi tra i personaggi si ritrovano tutte le mezze risposte, tutti i luoghi comuni che circolano a questo proposito, ma sono riportati con immedesimazione, come se l’autrice volesse prenderli sul serio, e verificarli uno per uno. 

Ma al tempo stesso l’autrice vuole andare oltre, e nel romanzo cerca di porre queste questioni così importanti nei loro termini reali: dov’è finita la capacità di amare mentre tutti hanno tanto desiderio di essere amati? Perché si fa così fatica a vivere assieme? Le risposte di Kučerskaja tengono volutamente un profilo basso, come a dire che non è tempo di prediche morali, i drammi oggi si consumano tra videogiochi ed sms: “Si era sentita l’eroina di Anna Karenina e invece… si trattava solo di un banale romanzo d’appendice… una volgare imitazione”.

Tuttavia, se zia Motja è lontana dai modelli dell’eroina classica, non è però lontana dalla vita, tant’è vero che molte lettrici hanno scritto di essersi viste ritratte nel romanzo; persino qualche uomo ha ammesso di non aver mai visto la questione coniugale in questa luce. Insomma, il pubblico russo legge Kučerskaja perché lì dentro trova qualcosa di sé, senza retorica, insegnamenti morali o manifesti ideologici. Ci si ritrova come in uno specchio. Questo è un fenomeno interessante in un panorama letterario dominato dal disimpegno, e smonta all’origine i pregiudizi dei critici che guardano con sospetto la fede religiosa dell’autrice. In realtà la sua posizione è di un’ammirevole equilibrio rispetto ai cliché dominanti, sia ortodossi che laici.

Il pregio maggiore di Kučerskaja è proprio quello di non cedere alla tentazione di offrire soluzioni certe, dogmatiche, ma di riconoscere diritto di esistenza alla mentalità comune, di cui però sottolinea i bisogni profondi e lo smarrimento. Anche i richiami dell’amica ortodossa della protagonista, dove si mischiano eterne verità cristiane e moralismi volontaristici, vengono passati al vaglio per vedere se “tengono” davanti alla vita, perché, sembra dire l’autrice, non c’è niente di più inutile del vago spiritualismo miracolistico. In un’intervista del 2008 aveva detto: “Quando vedo scritto su una targa: ‘Avvocato ortodosso’, o ‘Medico ortodosso’, mi viene voglia di girare sui tacchi e andare a cercare un buon medico e un buon avvocato. Se poi sarà anche ortodosso tanto meglio. Per gli scrittori vale lo stesso”. 

È un giudizio severo, che però lascia intendere come per lei la fede non debba mai andare disgiunta dalla ragione, e questa è una posizione molto netta.

Infine, a cosa approda questa storia coniugale? In un finale aperto che non è la tipica catarsi consolatoria, la protagonista riacquista il contatto con la realtà (di sé, del marito, dell’amante) e riprende una strada che non è la fuga e nemmeno la nuda volontà di sacrificio, ma l’accoglienza commossa del dono di un nuovo bimbo.