Stavano per scoccare le tre all’interno del Grand Hotel di Brighton nella notte del 12 ottobre 1984 e il first minister britannico Margareth Thatcher – prima donna di sempre nel Regno Unito a ricoprire tale ruolo – era ancora intenta a ultimare il discorso che avrebbe dovuto presentare poche ore dopo alla conferenza annuale del suo Conservative Party, i Tories, quando un violento scoppio deflagrò nell’ambiente: morirono cinque persone, due membri del governo rimasero feriti, mentre lei e il marito all’interno della camera n. 629 scamparono miracolosamente all’attentato.



La fortunosa salvezza permise alla “Iron Lady” di presentarsi puntualmente la mattina stessa, con soli dieci minuti di ritardo sul programma previsto, innanzi al suo partito riunito nella sala della conferenza per dichiarare: «Questo governo non è stato ferito, la nazione fronteggerà questa sfida, la democrazia prevarrà», e le concesse poi di perdurare nella guida del n. 10 di Downing Street per altri sette anni nel corso di due mandati e di vivere per quasi altri trent’anni.



Nella susseguente rivendicazione dell’attentato, i paramilitari dell’Irish Republican Army, l’organizzazione nazionalista rinata con lo scoppio dei “Troubles” nordirlandesi alla fine degli anni Sessanta, le avrebbero lasciato il seguente ammonimento: «Oggi siamo stati sfortunati, ma ricorda, dobbiamo essere fortunati una sola volta. Tu dovrai essere fortunata sempre. Si conceda all’Irlanda la pace e non ci sarà nessuna guerra». Ma da dove scaturiva la durezza di tale atteggiamento, che sembra persino andare al di là delle semplici logiche di contrapposizione tra il nazionalismo nordirlandese e gli United Kingdom, che pure in quegli anni stavano infuocando il paese nelle due isole? Come si era venuto ad affermare un odio così personale e feroce? 



Per comprendere le ragioni di un tale sentimento è utile riandare agli inizi del premierato della Thatcher, che coincise, di fatto, con la fase più drammatica della stagione degli scioperi in Ulster. I prigionieri repubblicani avevano, infatti, intrapreso una serie di proteste contro il regime carcerario cui si trovavano sottoposti in seguito alle condanne ricevute per le loro attività paramilitari. Il tema in discussione non era però costituito dalle condizioni di vita nelle prigioni (tra l’altro proprio in quella fase furono costituiti i reparti detentivi speciali per i paramilitari, in particolare gli “H-Blocks” nel carcere di Maze), ma la rivendicazione dello status di prigioniero politico, la cui abolizione nel 1976 aveva costretto i nazionalisti, per non accettare l’etichetta di “delinquenti comuni”, a girare in carcere con solo una coperta sulle spalle (la “blanket protest” volta al rifiuto di indossare la divisa carceraria), e in seguito a rinchiudersi e abbruttirsi fisicamente nelle celle per non frequentare i bagni comuni (la “dirty protest”, i cui effetti devastanti furono constatati  dall’arcivescovo primate d’Irlanda Thomas O’Fiaich in una sua clamorosa visita agli “H-Blocks” nell’agosto del 1978). 

Infine, con “Maggie” già al governo, era stato intrapreso dai prigionieri il gesto più drammatico e radicale, lo sciopero della fame, una prima volta nell’ottobre del 1980 a Long Kesh, e poi con Bobby Sands, la seconda volta, dal 1° marzo 1981 (sarebbe morto per primo il 5 maggio successivo), per concludersi solo nell’agosto dello stesso anno dopo che altri nove repubblicani si erano spenti per fame.

Quest’ultima fase del confronto vide i prigionieri dell’Ira e la Thatcher confrontarsi duramente sull’oggetto del contendere, ovvero la concessione da parte del governo delle cosiddette “five demands”, rivendicazioni attraverso le quali i paramilitari chiedevano in sostanza di essere riconosciuti come soldati di un esercito coinvolto in una guerra civile e non alla stregua di delinquenti comuni, seppur di stampo terroristico. E proprio per tali implicazioni, la donna primo ministro non volle mai cedere alle richieste, lasciando così che una decina di scioperanti si lasciassero morire. 

In questa drammatica vicenda anche le istituzioni ecclesiali del paese furono chiamate in causa, spesso loro malgrado. Per quanto riguardava gli scioperanti, ho già avuto modo di ricordare (a partire da I cristiani d’Irlanda e la guerra civile del 2006), come l’appartenenza cattolica rappresentasse nell’ideologia repubblicana, più che un valore religioso, un segno identitario: la partecipazione degli “hunger strikers” di Maze alla messa domenicale fu in effetti per loro prevalentemente l’occasione per serrare le fila, mentre le autorità carcerarie cercavano di sfruttare l’occasione delle celebrazioni eucaristiche per indurli a desistere dal digiuno.

D’altro canto, nel perdurante clima di duro confronto, con la Thatcher che rimaneva ferma sulle sue posizioni intransigenti, agli occhi dei nazionalisti acquistò crescente importanza proprio la posizione della Chiesa cattolica, dalla quale si auspicava si potesse ottenere un appoggio morale e ufficiale. Di contro, i prigionieri in sciopero avvertirono ben presto la propensione negativa della gerarchia ecclesiastica, giudicandola poi come un tradimento della comunità, operato in virtù dei presunti interessi intrattenuti proprio con il governo di Londra.

In una sua dichiarazione collettiva l’episcopato cattolico irlandese aveva infatti voluto collocare gli scioperanti nel quadro della lotta armata piuttosto che nella battaglia per i diritti umani, suscitando le critiche del sacerdote dissidente Des Wilson, il quale aveva manifestato simpatie per il movimento repubblicano già a partire dell’eccidio di Ballimurphy nel 1971. Wilson attaccò altresì direttamente il primo ministro Thatcher, la quale a suo avviso sembrava tesa a raggiungere una soluzione «cromwelliana», ovvero del tutto intransigente, della protesta negli “H-Blocks”  e, in generale, nella questione nordirlandese. Pure il neoeletto arcivescovo anglicano di Armagh John Armstrong si era a sua volta allineato alla condanna cattolica degli scioperanti, considerandone senza mezzi termini l’azione come una strategia volta a suscitare «una deliberata escalation di violenza»: essi, a suo giudizio, avrebbero dovuto ritirarsi dal loro proposito, mentre ai governi dei due stati irlandesi era richiesto di confermare la linea di intransigenza nei confronti dei loro tentativi di «coercizione». Anche questa posizione risultava del tutto compatibile con la strategia repressiva intrapresa dalle autorità inglesi e in particolare dalla Thatcher, e collaborava d’altro canto a rafforzarne l’immagine di nemica numero uno della campagna repubblicana.

In seguito, fu proprio la Chiesa cattolica a discostarsi dalla lettura criminologica della lotta dell’Ira, abbracciata dalla Thatcher, che la voleva ridurre ad un’“ordinaria”, per quanto drammatica, piaga delinquenziale. L’arcivescovo Cahal B. Daly, nel suo intervento “Ministering the Peace of Christ in a divided Community”, rivolgendosi ai protestanti nella Abbey Presbiterian Church di Dublino, l’8 giugno 1983 avrebbe ammesso, pur con una certa prudenza, che «la violenza paramilitare è in parte un’espressione, una non scusabile, immorale e irrazionale espressione della collera e della protesta contro condizioni di vita degradanti per le persone» .

Emergeva qui una crescente posizione critica della Chiesa nei confronti dell’amministrazione Thatcher sul Northern Ireland. Daly rivolse esplicitamente un’esortazione al primo ministro, secondo cui il suo recente successo diplomatico in Zimbabwe si sarebbe dovuto leggere come un promettente invito a operare in via risolutiva anche nella questione nordirlandese, onde trovare un giusto accordo tra le parti in causa. Un punto di vista che peraltro già Giovanni Paolo II nella sua visita nell’“Isola di Smeraldo” del 1979 aveva prefigurato, in particolare nello storico discorso di Drogheda, pronunciando una celebre condanna della violenza e un elogio della giustizia come condizione essenziale alla pace: intervento che sarebbe poi stato citato a più riprese dai successivi documenti firmati dal beato Karol Woityla in virtù della sua incisività. 

Padre Des Wilson avrebbe in seguito sostenuto, senza mezzi termini: «nessun governo, credo, può sopportare tali crudeltà come il governo della Thatcher ha mostrato in quei giorni» (Memories, Hunger Strike Commemoration Committee, 2001). Ma anche mons. Daly, nel ricordato intervento di Dublino, notò ironicamente che la stessa Thatcher, all’atto del suo insediamento a Westminster, aveva intonato la preghiera di San Francesco di Assisi per la pace. Se, pertanto, anche il mondo cattolico si era mostrato progressivamente critico rispetto alla linea d’intransigenza del primo ministro britannico, si può ben comprendere come l’Ira da parte sua, sin dai drammatici giorni dell’“hunger strike” l’avesse considera come la principale nemica, l’obiettivo numero uno da eliminare.  

E se è vero che la “Iron Lady”, il giorno stesso del più grave attentato subito da un primo ministro britannico nell’epoca contemporanea, si volle mostrare in piedi, e non intimorita dalla minaccia repubblicana davanti ai suoi, non si può non osservare come, solo l’anno successivo –  e precisamente il 15 novembre 1985 –, lei stessa avrebbe firmato presso il castello di Hillsborough congiuntamente al Taoiseach della Repubblica d’Irlanda Garret FitzGerald, quell’Anglo-Irish Agreement che viene oggi considerato storiograficamente come il punto di partenza del peace process in Irlanda del Nord. 

E, a un tempo, non si può comunque non riconoscere il particolare significato delle parole commemorative espresse dall’attuale inquilino di Downing Street, David Cameron – il premier conservatore che, va qui ricordato, ha fatto per primo pubblica e ufficiale ammenda nella House of Commons per le responsabilità esclusive della British Army durante la Bloody Sunday di Derry del 1972 –, per il quale in ultima analisi Margareth Thatcher è stata “un primo ministro patriota”.