Senza sofferenza non c’è corpo, e senza corpo non può esserci arte, e dunque vita. E nemmeno, per lui, la fede cristiana, che riscoprì nel movimento di Cl fondato da don Giussani. Nel ventennale della morte di Giovanni Testori, è stato da poco ripubblicato, per i tipi di Rizzoli, Il senso della nascita, un dialogo che che il critico d’arte e drammaturgo ebbe con Luigi Giussani nel 1980. Testori fu per il mondo cattolico ciò che fu Pasolini per la sinistra, dice di lui Vittorio Sgarbi. «La sua attualità è quella della sua visione apocalittica: il senso di una decadenza nella quale siamo inesorabilmente immersi, e che soltanto i valori religiosi possono contrastare, dandoci una diversa, sofferta, visione del mondo».



Testori ha guardato e giudicato l’opera d’arte partendo dalla propria sensibilità. Un approccio coinvolgente, ma forse un po’ arbitrario. È così?
No. La storia dell’arte ha avuto nei secoli una lunga stratificazione, da Filippo Baldinucci fino a Roberto Longhi, a Robert Berenson, per dirne solo alcuni, che hanno costruito ognuno una parte originale di questa storia. Arrivati a Testori, la storiografia non poteva più rimanere prigioniera di una elaborazione positivistica, doveva prendere un’altra strada. Fu quella della declinazione in una dimensione individuale, soggettiva.



Testori dunque è di parte.
Certo. Testori è volutamente tendenzioso, anzi è più che tendenzioso, è lombardo. Un militante. Questo gli consente di intendere meglio, come un esponente di partito, la parte sua. Longhi è ancora uno storico dell’arte individualista ma tende a verità oggettive, Testori fa sua la verità in modo volutamente fazioso. Non c’era per lui un’altra strada. Non gli si può chiedere un rigore accademico, storiografico, perché non corrisponderebbe a quello che lui voleva.

Lo ha definito un «militante». Di quale partito?
C’è una linea longhiana che mette in fila Roberto Longhi, Pier Paolo Pasolini, Francesco Arcangeli, Giovanni Testori e che identifica la Padanìa, un’entità culturale sui generis che si consolida a partire dagli anni Trenta del secolo scorso. Testori è un padano.



Che cos’è per Testori la forma, il «fare arte»?
Fisicità, corpo. Il corpo fisico, il corpo che soffre. Testori è agli antipodi dei princìpi, delle modalità espressive dei comunicatori pubblicitari, da tutte le tendenze americane che fanno coincidere arte e pubblicità, arte e comunicazione: è lontanissimo da un Andy Warhol. Tutte queste tendenze identificano quella che potremmo chiamare arte applicata, mentre l’arte che piace a Testori è im-plicata, è un’arte in cui l’uomo è protagonista con tutta la sua sofferenza e il suo disagio.

A chi è legato Testori in questa ispirazione?

Tutta la tradizione lombarda ha in sé questa componente potentemente umana, turbata. La sofferenza di Testori è quella degli uomini durante la peste manzoniana. Esaltava tutto ciò che era umana fragilità; gli piacevano Courbet, Soutine, poi il sofferente Varlin, la natura primordiale di un Ennio Morlotti.

Lei ha scritto su Panorama che vi siete conosciuti nel ’78, complice Giorgione. Come accadde?
Venne a Castelfranco Veneto ad un convegno su Giorgione, dove io − avevo 25 anni − proposi di sottrarre alle sue opere il fregio di casa Pellizzari. Era una tesi impopolare, ma Testori mi diede ragione. Poi, nell’80, scrisse un articolo sul Corriere magnificando una mia mostra su Palladio e il manierismo, dando una portata nazionale alla mia attività. E’ sempre stato dalla mia parte.

In che cosa lei si considera vicino a lui?
Francesco Arcangeli, mio maestro, era un Testori bolognese. Nella loro concezione c’è la perfetta coscienza, a mio modo di vedere condivisibile, che arte e vita sono la stessa cosa. Arte e vita si incontrano nel − anzi, sono − turbamento. L’arte non può essere solo rappresentazione iconografica o fotografica di qualcosa, è manifestazione del sé, dell’autentico.

Chi non conosce Testori come critico d’arte cosa dovrebbe leggere?
La stroncatura di Gae Aulenti autrice del Museo d’Orsay di Parigi. La schiaffeggiò pubblicamente in una pagina meravigliosa, memorabile.

Lei presenterà oggi a Milano Il senso della nascita, una conversazione da poco rieditata di Testori con Luigi Giussani, fondatore di Cl. Cosa pensa di quel dialogo?
So che la partecipazione di Testori a una militanza cattolica corrisponde, appunto, all’incontro con Comunione e liberazione e al suo dialogo con Giussani. Io non saprei dire quale influenza o fascino Giussani esercitò su Testori. È probabile che per un cattolico come Testori quell’amicizia fosse una sorta di autotutela, l’ansia di una garanzia contro la sua pulsione sessuale trasgressiva; oppure, che vi cercasse il perdono dopo il peccato. Il peccato è al tempo stesso estasi e turbamento, sofferenza.

Da molti critici Testori è stato accusato di occuparsi soltanto delle sue private ossessioni, quasi a discapito della dimensione pubblica. La sua opera ha anche una attualità civile, comunitaria?
Sì, esattamente la stessa che ha in Pasolini. Testori è stato per la Chiesa ciò che Pasolini è stato per la sinistra. Entambi non riuscirono a trovare in esse tutte le garanzie che cercavano: Pasolini accusò la crisi della sinistra, Testori quella della Chiesa, nella misura in cui vi scorgeva un limite alla propria aspirazione individuale. La sua attualità è quella della sua visione apocalittica: il senso di una decadenza nella quale siamo immersi, e che soltanto i valori religiosi possono contrastare, dandoci una visione diversa del mondo.