NEW YORK – “Che cosa c’è di tanto importante in un nome? Quella che noi chiamiamo una rosa avrebbe un dolce profumo anche sotto qualunque altro nome”, esclama in una famosa scena shakespeariana Giulietta Capuleti, la quale è stata informata da poco che il cognome dell’uomo di cui si è innamorata in un colpo di fulmine è Romeo Montecchi. Ma i due ragazzi, a questo punto, sono ancora ingenui. Presto essi scopriranno che le rose, a Verona come altrove, non profumano tutte allo stesso modo; sperimenteranno sulla loro pelle qualcosa di simile al fenomeno che alcuni qui hanno cominciato a chiamare “infiltrazione semantica” – cioè in parole povere: un dato termine sviluppa un significato, o per lo meno una connotazione emotiva, opposta a quella che possedeva originariamente. E spesso  le parole-chiave di una data epoca non sono il riflesso dei movimenti sociali,  ma le creatrici di tali movimenti.



Il preambolo era necessario per chiarire l’enorme importanza della posta in gioco: nel momento in cui i gruppi di pressione sull’opinione pubblica americana e non solo sono riusciti a imporre la parola “gay” e l’espressione “uguaglianza matrimoniale” (marriage equality) come gli unici modi civilmente e civicamente accettabili di parlare della questione che si trova all’esame della Corte Suprema statunitense – in questo momento essi hanno visto (qualunque sarà la decisione della Corte) la vittoria a portata di mano. Una delle spiritose opinioniste del New York Times ha sbeffeggiato recentemente  quei giudici che osano ancora impiegare la parola “omosessuale”; credo che questo sintetizzi bene la gravità della situazione attuale: una situazione di “pericolo chiaro e incombente” – clear and present danger.



Il  pericolo in questione non riguarda soltanto il dibattito sul matrimonio: ciò che è pericolante nella società statunitense contemporanea è niente meno che la libertà di espressione. E qui è importante intendersi bene (soprattutto perché i gruppi di pressione sono anche troppo pronti ad accusare di paranoia chiunque tenti di sottrarsi alla loro imposizione di discorso): il problema non è l’uso della parola “gay”; il problema è la tendenza a demonizzare coloro a cui non piace usarla. Io personalmente sono d’accordo con quell’opinionista che qualche tempo fa, su un quotidiano  italiano, osservava che a lui quella parola sembrava triste – e in questo potrò anche sbagliarmi; ma  quello che è grave è che, se fossi un giornalista americano, cartaceo o radiotelevisivo, ed enunciassi questa osservazione, rischierei di perdere il posto.



Quanto all’“uguaglianza matrimoniale”, quella che è stata realizzata è una manovra che, naturalmente con altri esempi, Aristotele già chiarisce nella sua Retorica: in ogni dibattito quello che conta prima di tutto è come si spostano i termini della questione. Nel momento in cui questo tema è stato enunziato in termini legalistici e pragmatistici, coloro che insistono su una definizione di valori si sono trovati già sull’orlo della sconfitta − soprattutto in un paese come questo, con la sua forte tendenza anti-intellettuale. Se parlo di matrimonio e previdenza sociale, ottengo subito un’attenzione simpatetica; se invece tento di attirare l’attenzione sulla definizione del concetto, rischio che i miei interlocutori comincino a guardare l’orologio.

Per marcare bene a che punto siamo arrivati debbo ricorrere ancora una volta a un esempio inglese (come altrimenti dare un’idea di infiltrazione semantica?). Chi mantiene una posizione critica verso l’idea del matrimonio fra persone dello stesso sesso ovvero genere, qui viene stigmatizzato come bigot − che non è affatto la stessa cosa che essere chiamato bigotto in Italia. Il bigotto italiano, come sappiamo, è colui che ostenta religiosità dedicandosi soprattutto alle pratiche esteriori  del culto. Il bigot anglosassone invece è qualcosa di ben più grave: è una persona con “forti pregiudizi, soprattutto su questioni religiose, razziali e politiche, e intollerante di coloro le cui opinioni differiscono dalla sua”. Insomma: il bigotto italiano rischia di essere preso in giro, mentre il bigot americano rischia di perdere un’elezione, o un impiego. Infiltrazione semantica, appunto: il termine che originariamente designa un atteggiamento intollerante viene oggi usato come arma dagli intolleranti.

In una  recensione, apparsa recentemente sul settimanale The New Yorker, del libro di uno storico inglese su Galileo si citava con approvazione una frase con cui quello storico caratterizzava l’Inquisizione italiana (in contrasto con quella spagnola): “Terrorismo di sfondo, ma a livello moderato”. Non ho la competenza per pronunciarmi sulla pertinenza di questa definizione per l’Italia dei tempi di Galileo. Ma dopo alcuni decenni di soggiorno negli Stati Uniti mi sento, pur con tutti i miei limiti, abbastanza socialmente competente per dire che in questi ultimi anni la situazione si è fatta in molti campi così pesante che si può parlare dell’emersione di un terrorismo intellettuale e politico di sfondo, a livello moderato. La democrazia americana è ancora abbastanza forte per controllare questa tendenza con la contro-tendenza delle armi “bianche”: la pazienza e il dialogo; ma bisogna collaborare.