La recente scomparsa di Raymond Boudon – uno dei massimi esponenti della sociologia contemporanea – costituisce un’occasione per riflettere sull’immagine dell’uomo. Se d’accordo con Pierpaolo Donati ammettiamo che ogni sociologia nasce da un’antropologia allora, oltre a distaccarci profondamente dall’antropologia positivista di Comte e dello stesso Durkheim, non possiamo non interrogarci su quale antropologia alimentasse la sociologia portata avanti da Raymond Boudon in cinquant’anni di lavori: il suo primo testo è infatti del 1963, mentre l’ultimo, Le rouet de Montaigne: une théorie du croire, è attualmente in corso di stampa.
Boudon dissentiva profondamente dall’antropologia proposta da quello che chiamava “il movimento freudiano-marxiano-strutturalista” e che riduceva l’uomo ad un risultato dei condizionamenti sociali, nelle loro diverse varianti. All’idea di un soggetto prigioniero delle culture, delle norme e delle convenzioni, Raymond Boudon ha sempre contrapposto un soggetto consapevole che in ogni occasione cerca di scegliere, pur tra mille errori e non poche disinformazioni, quella che gli appare come la scelta migliore. Proprio per questo si era fatto assertore di quello che definiva come l’individualismo metodologico, in virtù del quale compito della sociologia è spiegare singoli fenomeni sociali e, nel farlo, cercare sempre e comunque di ricostruire la logica delle persone che ne erano coinvolte. La tradizione liberale alla quale, da allievo di Raymond Aron, faceva riferimento non consente tuttavia di classificarlo tra i teorici della scelta razionale.
Boudon era convinto che il ritenere il soggetto agente solo in virtù del proprio interesse fosse una logica riduttiva e, in ultima analisi, fallimentare. Le “buone ragioni” che informano il soggetto quando deve compiere delle scelte economiche sono operanti anche quando questi si impegna a compiere delle scelte morali o deve aderire a credenze circa il senso dell’esistenza, o ancora deve scegliere tra valori in grado di orientare la propria vita. Le ragioni che impegnano il soggetto quando deve scegliere tra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, tra ciò che è bello e ciò che è brutto, non sono diverse da quelle alle quali ricorre quando deve dirimere tra il vero e il falso. In un caso come nell’altro non è la ragione utilitaria a muoversi, non sono gli interessi ad agire, ma il desiderio di conoscere la verità, quella che lui chiamava logica cognitiva. È su questa base che il credere, incluso il credere in Dio, diventa un’operazione logica, un atto ragionevole, possibile e plausibile.
Per tale strada l’adesione a credenze religiose diventa qualcosa di diverso da una semplice reazione dell’essere, che si attiva sotto il peso dei soli sentimenti o a seguito dei condizionamenti socio-culturali. Le stesse culture, a suo avviso, non si attivano che dopo che il singolo ha prestato loro credito e continuano ad esistere solamente fino a quando quest’ultimo continuerà a riconoscerle come accettabili. Certamente il singolo può sottoscrivere erroneamente norme ed a principi che, in un periodo successivo, gli si sveleranno come falsi e caduchi. Ma proprio quest’aspetto, che per molti costituisce indice di relativismo culturale, è per Boudon la prova del carattere manchevole delle analisi umane: l’errore, così visibile nella storia della scienza sperimentale, non è certo meno in opera quando si tratta di credenze e di valori.
Il riconoscimento dell’accademia francese dell’opera di Boudon è stato ambivalente. Muovere contro la tradizione durkheimiana, rappresentata da Bourdieu o contro un’applicazione estesa dello strutturalismo, rappresentato da Levi-Strauss, o ancora contro la filosofia di Michel Foucault voleva dire andare contro il mainstream della Francia intellettuale degli anni settanta e ottanta. Ritenere che il soggetto si ponga dinanzi ai problemi scegliendo consapevolmente tra i diversi valori, ne fa qualcosa di diverso da un semplice attore condizionato. Gli stessi errori nei quali questi può incorrere dimostrano l’esistenza di una spinta a cercare il vero ed il giusto ovunque, anche a costo di sbagliare. All’antropologia dell’uomo condizionato dal contesto fino ad esserne completamente dipendente, ma anche a quello di un soggetto limitato alle sole logiche utilitarie Boudon contrappone così quella di un soggetto che si ripropone, in ogni caso, di cercare la verità. Da laico e da non credente era colpito dalla statura intellettuale morale di Benedetto XVI e ne ammirava il rigore logico.
Ciò era per lui fonte di quieta soddisfazione. Da Boudon in poi il credere cessa di confondersi con la credulità ma diviene la risposta ad un’esigenza. A partire dalla sua prospettiva è possibile vedere nel credere religioso il segnale di un soggetto che si imbatte in momenti ed in situazioni alla luce delle quali diviene per questi necessario guardare al di là del quotidiano e interrogarsi sulle ragioni ultime dell’esistenza. Le risposte che trova hanno un senso e provengono da una procedura di ricerca non dissimile da quella di chi cerca le verità nell’universo fisico-naturale. Per la sociologia si apre un nuovo capitolo, ma anche per l’analisi sociologica della dimensione religiosa comincia una nuova fase.