C’è qualcosa che non torna nell’intervento che Ezio Mauro, direttore di Repubblica, ha tenuto martedì 16 aprile alla presentazione del libro del cardinale Angelo Scola (Non dimentichiamoci di Dio, Rizzoli, Milano 2012), alla presenza dello stesso cardinale Scola, di Francesco D’Agostino, di Giuliano Ferrara e di Ferruccio De Bortoli.
Mauro dirige un giornale che, fin dalla sua fondazione, si distingue come campione del relativismo culturale e quindi non incontra le simpatie di chi come me (e come diversi altri) crede che il relativismo non sia la posizione corretta per affrontare da uomini i problemi della vita.
Il relativismo sostiene che una verità vale l’altra e che tutte sono soltanto opinioni di pari grado meritevoli di dignità anche pubblica. Ma qui non voglio soffermarmi sui motivi della mia antipatia verso questo modo di pensare. Credo infatti che il problema più grave sia che i relativisti, dopo aver detto che una verità vale l’altra, aggiungono che, tuttavia, la verità del cristianesimo vale non come le altre verità, ma meno di esse. Il motivo? Perché il cristianesimo pretende che la verità della quale è portatore sia una verità assoluta, cioè non dipendente dalle scelte e dalle contrattazioni degli uomini. E perché una verità assoluta dovrebbe valere meno delle altre? Perché è intollerante. Ma chi l’ha detto che una verità, se è assoluta, deve essere, per forza di cose, anche intollerante? Qui la risposta non c’è, perché il meccanismo si inceppa: infatti, l’equazione tra verità assoluta e intolleranza è del tutto ingiustificata.
È grosso modo questa l’impalcatura (con relativo crollo finale) che sorregge l’intervento di Ezio Mauro, se non fosse che il direttore di Repubblica, a un certo punto della serata, deve aver pensato che il commentare il libro dell’Arcivescovo di Milano lo obbligasse non solo a proporsi come relativista, ma anche a suggerire ai cristiani come il cristianesimo dovrebbe essere. Come dovrebbe essere per essere cosa? Forse a misura dell’ideale di lettore medio che sfoglia Repubblica, altrimenti non si capisce cosa avesse in mente Mauro sostenendo che, nella società plurale, l’unica modalità accettabile di cristianesimo è quella consistente nella sequela coscienziosa che i cristiani possono e debbono fare dei contenuti trascendenti della loro fede, in quanto tutto ciò serve alla loro vita.
Il problema è che (purtroppo per Repubblica) il cristianesimo consiste non soltanto in una lista di consigli per gli acquisti di una trascendenza a buon mercato della quale Mauro sembra pensare di poter stabilire il prezzo, ma anche (e soprattutto) nella pretesa che questa trascendenza sia vera universalmente, cioè che Cristo sia il salvatore di tutti.
Chi non ci crede e reputa che il crederci implichi l’affermazione di una posizione intollerante, lo dica apertamente e non pretenda di addomesticare la cosa: nessuno, infatti, è obbligato a credere che Cristo sia il salvatore dell’uomo, ma nessuno (nemmeno Mauro) può obbligare il cristianesimo a non dire quello che vuole essere davvero.
Mauro vorrebbe che il cristianesimo diventi un qualcosa che va bene fino a un certo punto, cioè fin tanto che resta affare di coscienza privata. Ma Mauro sa cos’è la coscienza? Me lo chiedo solo perché vorrei capire le sue parole quando, in chiusura dell’intervento, ha detto che, nel caso di coscienza avanzato dalla Chiesa in occasione della vicenda di Eluana Englaro, non era chiaro il confine tra la coscienza e un comando proveniente dall’esterno.
Nel 1874 il Primo ministro inglese Gladstone accusava i cattolici inglesi di non poter essere sudditi fedeli della Corona britannica, in quanto soggetti all’autorità di un capo di Stato estero (il Papa). Non dico che Mauro si voglia (e si possa) mettere sulle orme di Gladstone, ma mi sembra utile solo far risaltare una differenza: Gladstone aveva il dente avvelenato contro i vescovi irlandesi che pochi mesi prima gli avevano fatto perdere le elezioni, mentre Mauro pare ce l’abbia con (testuale) «gli anni ruiniani della Cei».