Se è vero che le immagini sono state a lungo la “Bibbia dei poveri”, una di queste è senz’altro, e sarà nei tempi a venire, quella dello straordinario abbraccio fra papa Francesco e il papa emerito Benedetto XVI. Questa immagine conforta e, nello stesso tempo, invita a non chiudersi in uno schema interpretativo ristretto. C’è e ci sarà molto da scoprire: il presente e il futuro si presentano come un orizzonte aperto. E ripensando a quell’abbraccio, tornano alla mente anche quei due nomi: Francesco e Benedetto, che ci interrogano sul loro riaffiorare “dalla” e “nella” storia.



Benedetto e Francesco si chiamano infatti come quei due straordinari uomini, vissuti a circa sette secoli di distanza l’uno dall’altro, che, seppure in contesti diversi, furono ricostruttori di civiltà. Bisognerebbe chiedersi perché questi due grandi nomi si ritrovino ora uniti, in una ravvicinata scansione temporale, in un rinnovato parallelismo e in un processo di continuità, che, allora come adesso, a chi scrive appare evidente.



Lasciando ad altri la discussione sull’oggi, qui ci rivolgiamo al passato, a quel millennio chiamato “medio evo”, che vide sorgere, nel suo travagliato inizio, il carisma di Benedetto e che si stupì per quello di Francesco, fiorito nel bel secolo XIII così ricco di arte, di cultura ma pure agitato da violenti contrasti. Due costruttori, in mezzo a tante insidie e rovine.

La vita di Benedetto da Norcia (ca. 480-547) presenta molte analogie con quella di Francesco d’Assisi (ca. 1182-1226).

Nato in una benestante famiglia romana di provincia, Benedetto si reca ancora giovane (circa ventenne) nell’Urbe per studiare, ma decide di abbandonare il clima frivolo della città per una ricerca religiosa che lo rendeva inquieto. Accompagnato dalla vecchia nutrice, si ferma in un primo tempo in un paesetto sui colli della Sabina, presso una chiesa. Ma non trova pace: sta cercando un modo di vita diverso e crede di trovarlo in una forma estrema, radicale, durissima di eremitismo. Abbandona perciò tutto e tutti e si ritira nei boschi vicini al monte Aniane. I tre anni di isolamento e di totale povertà, trascorsi nella grotta di Subiaco, s’interrompono con la visita inaspettata di un sacerdote che lo raggiunge con del cibo per condividere la gioia della Pasqua. Benedetto aveva perso il conto dei giorni e non sapeva che in quel giorno anche lui poteva sospendere il digiuno e fare festa!



Questo incontro segna il passaggio dalla solitudine, pure amata, all’esperienza comunitaria, scelta così importante nella sua vita e congeniale alla sua capacità di governo, che si esprimerà al meglio nella stesura della regola. La nuova fase inizia però con due prove molto ardue perché alcuni monaci prima gli chiedono di diventare il loro abate, e poi tentano addirittura di ucciderlo; in seguito un prete, geloso del suo successo fra i fedeli, lo perseguita per “concorrenza pastorale”. In entrambi i casi, Benedetto abbandona e preferisce andarsene. 

Intorno all’anno 529, presi con sé alcuni monaci fedeli, Benedetto scende per la valle del Sacco fino a Frosinone e di lì per la via Latina raggiunge Cassino. Ed è qui che finalmente si esprime al meglio il suo carisma, nel fervore dei lavori intorno al nuovo monastero, in un cantiere fatto di mura, lavoro, preghiera, cultura; il tutto guidato dalla sua discreta e saggia autorevolezza. A questo punto egli “scrisse infatti anche una regola per i monaci, regola caratterizzata da una singolare discrezione ed esposta in chiarissima forma. Veramente se qualcuno vuol conoscere a fondo i costumi e la vita del santo, può scoprire nell’insegnamento della regola tutti i documenti del suo magistero, perché quest’uomo di Dio certamente non diede nessun insegnamento, senza averlo prima realizzato lui stesso nella sua vita” (Gregorio Magno, Dialoghi, II). Per offrire un breve esempio sul valore del celebre testo normativo, scelgo solo alcuni passi che mi sembrano particolarmente emblematici (anche rispetto al tema delle affinità con Francesco): “L’abate non anteponga un monaco proveniente da un ceto elevato a uno di umili origini” (II,18). “[L’autorità spetti all’abate] ma abbiamo detto di consultare tutta la comunità, perché spesso è proprio al più giovane che il Signore rivela la soluzione migliore” (III,3). “Non anteporre nulla all’amore di Cristo”  (IV,21). “Né [il monaco] pensi di avere nulla di proprio, assolutamente nulla, né un libro, né un quaderno o un foglio di carta e neppure una matita (…) ‘Tutto sia comune a tutti’, come dice la Scrittura” (XXXIII,3-6).

Non mi sembra invece opportuno soffermarsi in questa sede su questioni filologiche relative all’anteriorità o meno della regola benedettina rispetto ad altre regole monastiche, già circolanti in occidente (prima fra tutte la cosiddetta Regula Magistri). Sta di fatto che nessuno storico, pur con le dovute sfumature e precisazioni, metterebbe in dubbio che Benedetto da Norcia possa essere considerato il “Padre” del monachesimo occidentale; molti pure concordano nel considerarlo un baluardo della “Romanità” e una radice della costituenda Europa. Tale egli divenne non tanto e non solo per una genialità organizzativa ma – come ricordava il citato passo di Gregorio Magno − per l’eccezionale testimonianza della sua vita, che possiamo definire “santità”, con la speranza che il termine non evochi concetti astratti o spiritualistici: il santo è “un uomo vero”, che sa, tra l’altro, leggere i segni dei suoi tempi. E infatti a Benedetto si rivolgono molti uomini e donne, attirati da lui, dalla sua persona. Fra questi anche il re dei Goti, Totila, che ci ricorda quanto intorno a Montecassino continuassero guerre, violenze e devastazioni. Eppure in una società così decadente, il monachesimo benedettino diventa un seme di ricostruzione e Montecassino “rinasce” a Bobbio, a Farfa, a Corbie, a San Gallo, a Reichenau, a Westmister e a Malmesbury… Ben oltre le intenzioni del fondatore, l’ordine benedettino si diffonde cioè nello spazio e nel tempo.

E proprio nel secolo in cui nasce Francesco, in quello straordinario secolo XII, i Benedettini conoscono una grande rinascita che si può vedere incarnata soprattutto in tre personalità: Pietro (il Venerabile) di Cluny; Bernardo di Chiaravalle e Ildegarda di Bingen.

Il primo è, fra l’altro, autore di un trattato apologetico, che egli preparò attraverso una commissione da lui costituita a Toledo nel 1142, con lo scopo di tradurre in latino il Corano per meglio conoscere la religione islamica. Come non pensare, a questo proposito, all’esperienza di dialogo che cercherà pure Francesco nella sua visita al Sultano? Oppure come non trovare una sintonia fra l’amore per la natura che anima alcune pagine della studiosa Ildegarda con lo sguardo positivo che Francesco esprimerà verso le creature nel suo Cantico? Certamente il Poverello non arriva a tali affermazioni attraverso il percorso intellettuale della dotta badessa renana, ma il significato finale è simile: il creato è amabile in quanto opera del Creatore. Rispetto a Bernardo, credo che la passione con cui egli fu poeta o la sottolineatura della povertà richiesta ai monaci cistercensi siano altre radici che formeranno la religiosità dei laici contemporanei a Francesco.

Certamente quest’ultimo volle restare laico, non accettò solo la povertà comunitaria ma insistette anche su quella individuale, non ritenne necessaria la stabilitas monastica, né ebbe quella propensione innata all’arte di governo o agli aspetti giuridici. Scrivere la regola fu per lui un gesto di obbedienza al papa, ma tutto ciò non significa che egli si ponesse al di fuori della istituzione ecclesiale.

Benedetto e Francesco: due uomini che hanno amato Cristo e che non si sono certo posti il problema di chi lo amasse di più o meglio. Lo hanno semplicemente amato.