Se vivesse oggi quale sarebbe il volto di Odisseo? Quali i suoi tratti se egli avesse solcato i mari della modernità anziché quelli che bagnavano la sua Itaca? Forse avrebbe il soliloquio rotondo e inconcludente dei protagonisti dell’Ulisse di Joyce che galleggiano nella vacuità di un mondo mai più distante da tempi epici. Oppure avrebbe i tratti delicati e frangibili di Virginia Woolf, con le tasche piene di sassi nell’atto di immergersi nel fiume Ousen, schiantata dalla malattia e dalle notizie delle carneficine inferte dai nazisti. O magari potrebbe trovare un Omero americano in Herman Melville a cantarne le gesta, e nel capitano Ahab il vero successore, un marinaio non più alla ricerca della via di casa, ma ossessionato dalla ambizione di affondare l’arpione in quella Itaca bianca, al punto di inabissarsi con il gigante pur di portare a termine un destino ancestrale. Da una parte l’eroe flessibile di Omero, capace di modulare i comportamenti in funzione di un obiettivo; dall’altra il delirio di chi, stabilito chi sia “il nemico” lo combatte fino in fondo e fino al fondo di un Oceano.
Almeno così sembra pensarla Luigi Zoja, psicanalista e saggista di fama internazionale rimasto il maggior interprete, dopo la scomparsa di James Hillman, di quanti hanno traghettato il pensiero di Carl Gustav Jung fuori dalla pratica clinica, e lo usano per interpretare i fenomeni storici. Gongola un po’ quando riferisce di essere stato invitato a Ginevra per la prossima estate all’inaugurazione del Premio Lemkin dalla Fondazione internazionale per la Prevenzione del Genocidio. In Contro Ismene ha sostenuto che “negare che la violenza sia naturale, insita nell’uomo, ha costituito la base di molti grandi orrori del passato. In modo ricorrente accompagnate all’arroganza con cui le civiltà dell’occidente hanno creduto di manipolare la natura e la storia, utopie e ideologie si sono proposte di creare l’uomo nuovo: una creatura robot priva del male, inconscio ritorno a un mitico uomo originario precedente la cacciata dall’Eden”.
Insomma pare che l’uomo moderno, rimosso “l’ostacolo teologico”, si sia cimentato nella deificazione delle nazioni in nome delle quali ha commesso le peggiori aberrazioni. In particolare Zoja negli ultimi dieci anni ha lavorato meticolosamente alla raccolta di materiale per la pubblicazione del ponderoso volume dal titolo Paranoia, i cui meriti gli sono valsi la menzione al Premio Lemkin. Sarebbe infatti questa “follia lucida”, antica quanto il delirio di Aiace eppure così connotante gli avvenimenti degli ultimi secoli, “l’unica patologia psichica in grado di fare la storia”.
Essa − scrive sempre Zoja − è “un residuo irrazionale delle rivoluzioni positiviste e in parte persino psicoanalitiche. Esaltate dal proprio successo esse hanno voluto vedere e spiegare tutto anche ciò che non si vede”. Dall’eccesso di zelo ne consegue quindi l’attitudine a “non vivere più nell’incertezza, non dover fare più l’atroce sforzo di capire. La macchina semplificatrice della logica paranoica potrà funzionare scorrevolmente: la presenza del nemico spiega tutto”. Quando si ha un antagonista certo il mondo diventi più semplice da capire, diffondendo un pensiero immune da ogni forma di autocritica dal quale scaturisce un nuovo vangelo: “il nemico non deve essere solo ucciso ma anche odiato. Nel mondo esterno si veste di razionalità la nuova pretesa di essere non solo vincitori ma anche giusti”.
Insomma professore, sembra che la paranoia sia molto imparentata con il secolo delle ideologie.
Il secolo scorso è stato quello delle utopie massimaliste, dove si perseguiva l’idea dell’uomo nuovo. Questa è una idea palingenetica nella storia la cui sgradevole tendenza è quella di fermarsi alla “fase uno”, che prevede l’eliminazione di buona parte di quanti vengono considerati uomini vecchi. L’uomo nuovo non arriva mai, ma intanto si fanno orrori e massacri.
Esistono anche utopie minimaliste?
Ad esempio la prospettiva di miglioramento che non sia solo proiettivo, cioè paranoico, ma includa una dimensione psicologica, cioè autocritica; una morale che non si accontenti di attribuire colpe e responsabilità esterne. Vivere senza alcuna utopia, privi di sfondi di un senso globale, preoccupati solo di consumare e riducendo la libertà alla opzione tra la Coca Cola o la Pepsi vuol dire aver perso qualcosa di importante.
Non trova che la propensione a puntare l’indice contro qualcuno sia una delle caratteristiche anche degli ultimi anni?
Una delle cifre del secolo scorso era la contrapposizione tra padroni e lavoratori; a questa propensione si è progressivamente sostituita quella tra vittime e carnefici, altrettanto paranoica. Abbiamo scoperto il “diritto vittimario” come attitudine a dover sanare sempre qualche ingiustizia. Un suo antecedente si può reperire persino nella Costituzione italiana, dove all’articolo 32 si parla del diritto alla salute, e non di diritto alla migliore terapia possibile. Insomma chi si ammala ha subito un torto sanzionabile dal diritto costituzionale. Io vedo in questo un segno dell’onnipotenza dell’uomo moderno che non proietta più nei cieli e quindi ha introiettato Dio, e la scienza deve dare tutte le risposte, come se non si dovesse più morire. Mi colpisce molto anche il movimento No Tav i cui coscritti giungono a comportarsi quasi da brigatisti, pronti a fare qualsiasi cosa, a dedicare la propria vita a questa battaglia, poco interessati alla realtà dell’ambiente.
Lei ogni tanto collabora con Il Fatto Quotidiano. Cosa pensa della diffusione dell’atteggiamento di indignazione?
Loro sono giovani e arrabbiati. Io non sono né l’una né l’altra cosa. Quando l’ho fatto ho scritto quindi anche cose che contraddicevano la loro linea editoriale. In particolare riguardo al concetto di indignazione. Occorre assumersi una responsabilità delle parole: dirsi indignati vuol dire non riconoscere la dignità dei propri interlocutori, rifiutando quindi ogni forma di dialogo. Mentre dovremmo fare il lavoro opposto e riconoscere la dignità a qualsiasi avversario.
Le si potrebbe replicare che anche lei nel suo libro auspica il recupero di “una capacità di indignazione”.
Quando ho scritto quel passaggio non c’erano ancora i movimenti che cavalcano lo sdegno popolare come ora. Con quelle parole intendevo descrivere la necessità di un sentimento interiore di indignazione, che contempla una assunzione di responsabilità che si traduca in un impegno. Un sentimento che non degeneri nelle opposizioni inconciliabili, collaborando collettivamente ad un positivo. È molto pericoloso spingere le situazioni sino al punto di rottura. Quando il senso di indignazione si spinge oltre quel punto le persone non si sentono più responsabili delle proprie azioni, proprio come nei linciaggi.
Lei ha descritto le caratteristiche dei leader paranoici di successo, il quale è “un maestro di difese psichiche”. Venendo alla attualità, non crede che Beppe Grillo potrebbe essere ascritto a questa categoria?
Penso che Beppe Grillo sia un uomo intelligente, ma il suo linguaggio politico nasce da una autoeccitazione e dal populismo, nutrendosi di argomentazioni eccessivamente semplificatrici. È molto pericoloso e irresponsabile dire, per guadagnare consensi, che si possa uscire dall’euro. Inoltre il rifiuto del confronto da parte del comico genovese potrebbe essere un indicatore di un atteggiamento paranoico.
Corrado Augias l’ha invitata in trasmissione per “diagnosticare” la paranoia di Berlusconi nei confronti della magistratura. Il Cavaliere non è diventato a sua volta oggetto di atteggiamenti paranoici?
Io non ho alcuna simpatia politica per Berlusconi, e non seguo con particolare passione la situazione politica italiana. Ma recentemente sull’Herald Tribune, accanto alla notizia della condanna di Berlusconi, ne ho letto un altro dove si sottolineava la insolita simultaneità della pubblicazione della motivazione della sentenza, quando normalmente occorrono tra gli 80 e i 90 giorni. È curioso che la notizia sia stata riportata da un quotidiano dell’area liberal americana, certo non favorevole a Berlusconi, mentre invece la stampa italiana ha trascurato la cosa.
(Claudio Mercandelli)