“Sventurata la terra che ha bisogno di eroi”. Quante volte ci è toccato sentire questo aforisma di Brecht, sempre staccato dal suo contesto. Ma, verrebbe da dire, ancora più sventurata la terra che non trova eroi nel momento del bisogno. La sera dell’8 settembre 1943, mentre una nazione intera sprofondava nella vergogna, abbandonata dai propri capi e dallo stesso re, senza che fossero state lasciate direttive di resistenza a nessun livello, tanti ma proprio tanti italiani, audaci e responsabili decidevano di non cedere le armi e di “resistere”. Resistere a cosa? Non solo a un ex alleato rivelatosi subito come il peggiore degli oppressori ma anche a quel desiderio, radicato in ognuno di noi, che ci incita a lasciar perdere, a non assumerci responsabilità, che irride al nostro desiderio di salvare, se non il mondo, almeno il mondo che ci circonda.
Aldo Gastaldi era nato il 17 settembre del 1921, per cui la fatidica sera dell’8 settembre non aveva ancora compiuto ventidue anni. Sembra impossibile solo pensarlo che, a quell’età, si possano assumere decisioni così pesanti ma, a quei tempi, si era costretti a crescere in fretta. Aldo era nato a Rivarolo: perito elettrotecnico, fisico atletico, giocava a rugby nel ruolo di pilone e praticava canottaggio. Ma la sua passione era la montagna e fin da piccolo si era rivelato come un camminatore instancabile. Sottotenente del genio, Gastaldi la sera dell’8 settembre si trovava nella caserma del 15° reggimento a Chiavari e riuscì a tenere uniti i suoi uomini senza abbandonarli mai. Lucido quanto coraggioso, scelse di nascondere le armi e di andare sulle montagne indossando l’uniforme e i gradi. A chi gli diceva di toglierseli per evitare la fucilazione, in caso di cattura, il giovane ufficiale rispose che intendeva assumersi ogni responsabilità per salvare la vita dei suoi uomini. Le armi vennero nascoste nella casa di un calzolaio che procurò scarpe a tutta la compagnia. Pochi giorni dopo Gastaldi (nome di battaglia «Bisagno») Giovanni Serbandini («Bini»), Franco Antolini («Furlini») e Umberto Lazagna («Canevari») formavano il primo gruppo di azione, scegliendo come base la località di Gnorecco, alla falde del monte Ramaceto, nelle vicinanze di Cichero. Il parroco di Cichero, don Attilio Fontana, diverrà poi cappellano della divisione.
Così Giampaolo Pansa descrive “Bisagno” nel romanzo I nostri giorni proibiti: «Sembrava il personaggio di un film sui cavalieri di re Artù. Alto, atletico, una barba corta tra il biondo e il rosso, un coraggio spericolato, altruista, cattolico dalla testa ai piedi, di un’austerità da frate, tutto dedito alla sua idea fissa: tirare su una formazione di ribelli capaci di mandare al tappeto la Germania di Hitler e la repubblichetta di Mussolini. […] Sino all’ultimo ha ripetuto il suo credo: non si doveva odiare il nemico, ma soltanto combatterlo, non si doveva torturare, fare rappresaglie, fregarsene dei danni ai civili, e ai comandanti spettava l’onore di sacrificarsi per tutti» (Giampaolo Pansa, I nostri giorni proibiti, Sperling & Kupfer, Milano 1997, p. 33 e p. 36).
Certo, un cattolico al comando della brigata “Garibaldi Cichero”: una cosa che, oggi, gli esponenti del centrodestra fanno tanta, ma tanta fatica a capire. Invece, in questa brigata sussisteva un servizio religioso ben organizzato con tanto di cappellano e una preghiera che va citata per intero: «Vergine Maria, madre di Dio, rendimi un patriota intelligente e onesto nella vita, intrepido nelle battaglie, sicuro nel pericolo, calmo e generoso nella vittoria. Accetta i sacrifici e le rinunce della mia vita partigiana e concedimi di raggiungere, con purezza d’intenzioni, l’ideale che donerà alla Patria con lo splendore delle antiche tradizioni, l’ebbrezza di nuove altissime mete”. E va detto che anche i comunisti presenti nella banda erano altrettanto generosi, integri e altruisti, appartenenti a un monachesimo laico di cui si è perso lo stampo.
Durante l’inverno del 1943, “Bisagno”, conscio di non poter compiere grandi azioni offensive, allenò i suoi uomini in lunghe marce sulle montagne che conosceva alla perfezione; poi il 21 marzo il primo colpo di mano contro una caserma della Guardia Nazionale Repubblicana a Borzonasca, e poi l’attacco alla caserma di Rovegno, dove Gastaldi dimostrò un eccezionale sprezzo del pericolo, riaccendendo una miccia corta e saltando giù dal tetto di una palazzina un attimo prima dell’esplosione.
La dirigenza comunista, che aveva iniziato a guardarlo con sospetto, non tardò ad ammirare questo giovanotto che sapeva fare la guerra, pesando al minimo sulla popolazione e badando a non coinvolgerla nei rastrellamenti. I partigiani, inoltre, avvisavano i contadini se erano in partenza spedizioni fasciste per accaparrare derrate alimentari o bestiame così da riuscire a sottrarli alle requisizioni e avevano eliminato un paio di bande di grassatori che infestavano la zona.
Nel luglio del 1944 la “Cichero” divenne una divisione, sempre controllata dal Partito Comunista e con crescenti successi che portarono alla diserzione di un intero battaglione alpino della divisione repubblicana “Monterosa”. Gli alpini divennero la guardia personale di “Bisagno”, dando prova di coraggio e fedeltà. Nel dicembre del 1944 iniziò un imponente rastrellamento contro la “Cichero”, ma dopo pochi scontri i nazifascisti trovarono il vuoto. I partigiani si erano volatilizzati e non si capiva come avessero fatto, ma migliaia di essi erano sotto gli stivali. La tattica di “Bisagno”, che anticipò quella dei vietcong, aveva la verità sotto gli stivali dei brigatisti neri. Dopo lunghe discussioni, “Bisagno” era riuscito a fare costruire ai suoi uomini caverne e buche perfettamente mascherate, nelle quali i partigiani resistettero per dieci giorni, aspettando che il nemico si allontanasse.
Già in gennaio le brigate della “Cichero” tendevano nuovamente imboscate annientando colonne di georgiani e turkestani che combattevano in uniforme tedesca. Tanto successo portò a un aumento degli effettivi e, in febbraio 1945 i vertici comunisti decisero lo sdoppiamento della divisione. Una scelta doverosa ma che serviva ad esautorare dal comando proprio “Bisagno”. Le discussioni portarono a un clima sempre più esacerbato e poi quasi allo scontro armato, quando i fedelissimi di “Bisagno” affrontarono i comandanti comunisti ad armi spianate, trattnuti solo dall’intervento moderatore di Gastaldi. “Bisagno” mantenne il comando della “Cichero” ma, da allora in poi, temette per la propria vita, in totale rottura con i responsabili comunisti. Sono di quel tempo alcune lettere che, oggi meritano di essere citate. “Noi non abbiamo un partito, noi non lottiamo per avere un domani un cadreghino, vogliamo bene alle nostre case, vogliamo bene al nostro suolo e non vogliamo che questo sia calpestato dallo straniero, dobbiamo agire nella massima giustizia e liberi da prevenzioni”. Oppure: “Continuerò a gridare ogni qual volta si vogliano fare ingiustizie e griderò contro chiunque, anche se il mio grido dovesse causarmi disgrazie o altro”.
Alla fine della guerra mantenne la parola data e accompagnò a casa gli uomini del “Vestone” per salvarli da eventuali rappresaglie di partigiani sanguinari che, peraltro, avevano spesso impugnato le armi solo a cose fatte. Il 21 maggio, durante il viaggio di ritorno, nei pressi di Desenzano, cadde dal tetto del camion e morì schiacciato dalle ruote del rimorchio. Un episodio assai oscuro, ottimamente descritto da Luciano Garibaldi nel suo I giusti del 25 aprile (Ares). “Bisagno” non aveva ancora 24 anni. Nei decenni successivi la sua figura è stata ora studiata, ora ignorata ma a Genova e in Liguria lo ricordano come uno dei figli più straordinari e la stessa Chiesa genovese lo onora come un esempio vivido di fede e di lotta.
Fra tante celebrazioni del 25 aprile, varrà, credo, la pena di smettere di essere generici e di ricordare almeno lui perché non venga più dimenticato. Nel 2014 toccherà a qualcun altro e poi ad altri ancora, fino a quando la bellezza della Resistenza tornerà a splendere, libera da revisionismi negativi e da mitizzazioni fantasiose.