Esattamente 300 saggi “divulgativi” sono stati pubblicati in vita dal celebre paleontologo Stephen Jay Gould. E sono usciti in 10 volumi, lungo 25 anni ininterrotti di carriera. L’ultima raccolta, I have landed, è un libro pensato per giocare seriamente sui destini incrociati del caso e della necessità, che governano la «contingenza», come egli la definisce, della vita sulla terra. Proprio come i suoi nonni emigranti, anche Gould, seppur nativo americano, has landed, è cioè sbarcato su una nuova terra di libertà (il volume è illustrato con l’omonima statua di New York); una terra che, tuttavia, aveva le caratteristiche di una giurisdizione tutta particolare e dai confini pressoché illimitati. 



Il territorio sul quale lo scienziato evoluzionista riteneva di essere sbarcato aveva un nome inusuale, ed egli ce lo rivela con una dedica nella quarta di copertina: «Ai miei lettori, miei concittadini nell’antica e universale (e sempre piena di vita) Repubblica delle Lettere». Come dire: benvenuti, amici, nel paradiso antico e inconfessato cui anela (quasi) ogni autentico intellettuale che desideri abitare la civiltà del dialogo, della cortesia, della magnanimità e della giustizia; in altre parole, della cultura secondo il codice di quell’ideale che i letterati italiani per primi, sul modello dell’umanesimo cristiano di Dante, di Petrarca e di Boccaccio, avevano donato come fondamento culturale alla identità europea. 



Così un darwiniano del Nuovo Mondo, innamorato della «vita meravigliosa» descritta dall’evoluzione, si considerava a pieno titolo cittadino di un’unica cultura, capace di praticare armoniosamente i diversi linguaggi, scientifici e umanistici, che la compongono, senza che tale commistione intacchi il rigore del necessario specialismo, o che imponga le categorie dell’uno sull’altro. La sua attività di scrittore e scienziato, di storico ed epistemologo, sempre svolta ai massimi livelli, certifica che la vastità degli orizzonti e la pluralità degli stili culturali non è una chimera dei positivisti ottocenteschi, vanificata dai progressi analitici dei diversi settori delle scienze moderne. E rivela, altresì, che la versatilità del dialogo non solo non pregiudica le eccellenze, ma addirittura abilita, come poche altre educazioni, all’esattezza della descrizione dei dettagli, e alla precisione di una loro adeguata interpretazione. 



Non si tratta, insomma, di enumerare le passioni artistiche e letterarie di eminenti scienziati, come la modesta abilità musicale di Einstein, o l’interesse del fedelissimo «mastino di Darwin», Thomas Henry Huxley, nei confronti della Gerusalemme Liberata del Tasso, per quanto l’accostamento possa sorprendere in un positivista agnostico dell’età vittoriana, che leggeva in italiano l’Inferno dantesco. Si tratta piuttosto di risalire a più originarie categorie conoscitive, come quelle dell’esattezza e del dettaglio, che sono perseguite parimenti dalla scienza e dall’arte, come egli mostra nel saggio dedicato all’attività di entomologo svolta da Nabokov, l’autore di Lolita

Esisterebbe insomma una contiguità tra cultura umanistica e scientifica, che induce a ripensare il rapporto tra le cosiddette «due culture», come le aveva definite nel ’59 C. P. Snow. Un rapporto che sembrava destinato a risolversi o in un perenne conflitto (una «guerra dei mondi» l’ha definita il matematico Piergiorgio Odifreddi), o con una conciliazione forzata, nella quale sarebbero stati gli uomini di formazione scientifica, i soli «al passo coi tempi», a potersi appropriare dei linguaggi umanistici, convertendoli ai metodi dei loro progressi, come di fatto accade nel caso delle «scienze umane». 

All’apertura di Bravo Brontosauro (1992), Gould viene invece a ricordarci con il linguaggio salmistico della poesia della lode, biblica e francescana, che «Pleni sunt coeli / et terra / gloria eius. / Hosanna in excelsis». Al modo di un agnostico naturalista egli ha perciò bene in mente che la scienze e le arti hanno in comune innanzitutto la gioia che viene dal conoscere. E il conoscere è un modo di dare gloria eius, per quanto egli tratti di un “eius” con la “e” minuscola, cioè di un dio-natura non Creatore ma “produttore”. La scienza evoluzionistica di Gould sembra quindi invitare a non dimenticare i significati originari dei gesti umani, dove “conosco” equivale a “ri-conosco”, nelle accezioni proprie dell’atto conoscitivo inteso come atto di ringraziamento, che trova compimento nella sua comunicazione. Questo sembra essere il vero senso assegnato alla “divulgazione” da Gould, davvero erede della rivoluzione “volgare”, del dire il vero nella lingua di tutti, inaugurata, come egli per primo riconosce, dalla lode cosmologica di san Francesco. 

Anche ne I fossili di Leonardo e il pony di Sofia (1998), Gould ha modo di regalarci squarci di paesaggio illuminanti proprio per la profondità temporale cui riesce ad avvicinarci, senza rinunciare a definire con esattezza le inevitabili distanze storiche. Come quando ci racconta del Megaloceros, il preistorico alce irlandese, e della sua leggendaria gobba: «un elemento della storia naturale più prezioso di quanto si possa immaginare, per il semplice fatto che un tempo è esistita e che noi non ne avremmo mai conosciuto l’esistenza o il fascino se i nostri progenitori non ce ne avessero lasciato una documentazione visiva così bella». 

Non si tratta dunque di un uso solo documentario dell’arte del paleolitico, per quanto scientifico esso possa ritenersi; il massimo grado della sua conoscibilità arriva all’uomo contemporaneo grazie alla “bellezza” con cui gli uomini del paleolitico hanno reso quegli alci immortali nelle pitture delle grotte di Caugnac e Chauvet. È il gesto con cui gli uomini dei primordi li hanno “finti”, e ce ne hanno comunicato non solo la perfetta anatomia, ma con essa anche il piacere e la meraviglia che ai loro occhi suscitava quella sacra «bellezza». «Se fra i dipinti più antichi vi sono anche i migliori −  commenta l’evoluzionista Gould − è giocoforza abbandonare le precedenti teorie di un progresso lineare».

Verrebbe allora da chiedersi quanto certi umanisti o certi scienziati “superati” abbiano in realtà “anticipato” Gould. Potremmo addirittura scendere sino alle origini ottocentesche della  paleontologia, per ritrovare, sempre in Italia, un altro scienziato umanista, l’abate Stoppani, geologo di vaglia e autore del best seller che diede il nome al celebre formaggio, Il Bel paese. Riflettendo sul Sentimento della natura e la Divina Commedia, nel 1865, di fronte ai segni di quei primi uomini che cominciavano allora ad essere rinvenuti, mentre l’antropologia inventava il concetto di «primitivi», e vedeva anche l’arte evolversi dal semplice al complesso, Stoppani così commentava, in una nota lunga due pagine: «I ritratti degli animali scolpiti da quegli antichissimi trogloditi, ti fanno spesso meravigliare per l’esattezza delle linee e la rassomiglianza degli aspetti. Tu vi distingui subito, senza dubitarne, l’uro, il bisonte, la renna, il cavallo, il cervo. Non manca qualche figura d’uomo, né la mossa talvolta sì ardita che non la sdegnerebbe certamente l’arte moderna. Quelle renne lanciate alla corsa, che adornano i rozzi scettri, o formano l’impugnatura dei pugnali, sono veramente ammirabili». 

La bellezza del vero, come la chiamava manzonianamente Stoppani; dell’esattezza e del dettaglio, come ce la ricorda la «storia naturale umanistica» di Gould, si incontrano in questa tradizione. Ecco perché interessa riflettere sul fatto che nel dialogo culturale uno dei massimi esponenti della scienza naturale contemporanea concluda il suo saggio quasi ripetendo un «mantra» di autentico sapore vichiano: «Questi dipinti ci parlano oggi con tanta eloquenza perché conosciamo gli uomini che li hanno fatti: siamo noi». Si tratta cioè di quegli stessi uomini che Darwin aveva studiato non solo nella loro evoluzione fisica e psichica, ma soprattutto nella loro costitutiva diversità linguistica, come animali che hanno cominciato ad inscrivere nel loro volto la coscienza delle loro emozioni: animali che fingono e sanno di fingere. «L’essere umano è una cosa doppia», sostiene Carlo Sini ragionando tra la storia umanistica di Vico e la storia naturale di Darwin. E come Vico, così Darwin coglieva nella profondità abissale del tempo il momento sorgivo e permanente dell’umano, e lo coglieva nella consapevole rappresentazione del linguaggio del corpo.

Le «due culture» si riuniscono quindi nei linguaggi di finzione, l’unico modo di ragionare in grado di rappresentare insieme indicativo e congiuntivo, dati ed ipotesi, fatti e desideri, istinto e ragione. Capace di illuminare per quasi quarantamila anni la grotta Chauvet con i «sogni», ossia i possibili ottativi, di quegli uomini del paleolitico che anche lo scienziato moderno può riconoscere come suoi contemporanei.

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