Un’opera teatrale contemporanea, composta da Giovanni Testori, ben documenta l’importanza della presenza di un maestro nella vita. Si tratta de I promessi sposi alla prova, in cui Testori adotta la struttura del metateatro o teatro nel teatro tipica del pirandelliano Sei personaggi in cerca d’autore per rileggere il grande capolavoro di Manzoni.



Non a caso Testori parte dal capolavoro manzoniano per affrontare il tema del maestro. Manzoni aveva, infatti, fin da giovane sentito l’importanza di un maestro nella vita. A vent’anni, alla morte di  Carlo Imbonati, gli aveva dedicato un carme, in cui il defunto gli consegnava, in sogno, una sorta di testamento spirituale per crescere nella verità di uomo: «Sentir […] e meditar: di poco/ esser contento: da la meta mai/ non torcer gli occhi: conservar la mano/ pura e la mente: de le umane cose/ tanto sperimentar, quanto ti basti/ per non curarle: non ti far mai servo:/ non far tregua coi vili: il santo Vero/ mai non tradir: né proferir mai verbo,/ che plauda al vizio, o la virtù derida» (1806). Per Testori il maestro è una persona che «scopre che insegnare, oggi, è ritornato necessario». E ancora «non è qualcuno che opprime con il suo sapere; è, più cristianamente, qualcuno che consegna a dei giovani la propria esperienza e intanto si arricchisce della loro giovinezza. Un transfert religioso. […] Cerca di recuperarli al senso del loro mestiere, cioè […] alla loro umanità. Cerca di farli tornare uomini in quella «parola» che è il loro mestiere».



Testori non intende «spiegare il Manzoni, metterlo in scena, quanto verificarlo oggi». I promessi sposi sono «un romanzo della storia e il popolo incarna questa storia nella libertà più assoluta […]. Dio non è una presenza che sovrasta i personaggi, ma che anzi li segue, li accompagna affinché ognuno, gli umili e i poveri come i potenti, arrivino ad un riconoscimento del senso e del significato» (Testori).

A partire dall’impostazione del dramma pirandelliano, anche Testori mette in scena sei personaggi (gli attori che interpretano Renzo e Don Rodrigo, le attrici che rivestono i panni di Lucia, Agnese, Perpetua, Gertrude) guidati da un regista/maestro, che incarnerà talvolta anche altre parti, in modo da non introdurre un settimo personaggio contraddicendo in tal modo l’impalcatura del dramma pirandelliano.



L’azione teatrale si svolge in due giornate. All’inizio della prima il maestro insegna ai suoi allievi a recitare la propria parte. Li introduce, quindi, al proprio mestiere: «Il mestiere! Perché il mestiere, dal latino ministerium … Ministero… Forse sbaglio. Del resto, anche se sbaglio, è ugualmente bellissimo. Mestiere uguale a ministero». Il proprio mestiere è come un compito che uno si assume nella vita, una responsabilità nei confronti degli altri, una sorta di missione. 

Ben cosciente, però, che i suoi attori/alunni si sono lasciati irretire dal pensiero dominante, il maestro dice loro: «So bene che, nella summentovata pausa, vi siete venduti, tutti e tutte, a quelle perenti […] fandonie che han finito per togliervi, ammesso che nascendo ne abbiate mai avuto, ogni gusto, ogni senso e ogni regola di che sia il mestiere del recitante; il mestiere, ecco, del farsi, dell’essere, qui, attore; e, attore, per sempre». Ecco, l’uomo ha perduto il gusto di vivere, di crescere e di scoprire la propria natura. Il maestro decide, allora, di reimpostare con gli attori il «problema della recita». Interviene in maniera esagerata, quasi ossessiva. Insegna ai ragazzi il valore della parola: «La parola redenta! Già, redenta! […] La parola che si fa ossa, carne… Pensate un po’; anzi, pensiamo, meditiamo; lei, la parola, che s’inossa, s’incarna, si fa realtà, non è forse il senso e il mistero  stesso di queste assi? Il senso e il mistero mio, tuo, suo, nostro?». Il maestro si fa nuovo Adamo che rinomina tutte le cose. Nominare la realtà significa conoscerla, quindi entrare in rapporto con lei e addentrarsi nelle sue profondità, in poche parole introdursi alla realtà. L’evangelico «il verbo si fece carne» investe ogni ambito dell’esistenza e invita a recuperare un rapporto carnale e viscerale con la realtà, in un contesto culturale in cui pensiero e ideologia sembrano avere il sopravvento su tutto. È la realtà, invece, che con la sua concretezza educa, provoca, sollecita.

Il maestro lascia la libertà ai suoi attori, non li mortifica, ma li sprona a librarsi verso il cielo: «Io le ali non le spezzo! Le aiuto; a librarsi; come quelle dei falchi; o delle poiane; le rimpolpo; le ringagliardisco, io, le ali». Gli attori sempre più fanno proprie le sue direttive e iniziano a «testoreggiare», per usare le parole del testo, cioè a far diventare carne le parole, a renderle realtà, a far rivivere la storia. Così, anche quel pudico e casto amore dei due fidanzatini nei Promessi sposi si connota di fisicità, di desideri sopiti, di attese di soddisfazioni, pur conservando l’elevatezza che Manzoni le ha conferito. Renzo arriva ad affermare che quando ha incontrato l’amore, Lucia, ha capito perché è venuto al mondo. Siamo, infatti, nati per amare. Bellissime sono anche la semplicità e la concretezza con cui Agnese, Renzo, Lucia vivono il cristianesimo. Di fronte alle difficoltà, Agnese consiglia: «Invece di finir allagati dalle lacrime, diciamo su un rosario».

La figura di fra Cristoforo viene incarnata dal maestro così come era stata interpretata da lui la figura di don Abbondio. Non sarà certo un caso che il Maestro interpreti sia chi ha abdicato dal suo compito di educatore (Don Abbondio) e chi, invece, l’ha assunto fino in fondo, addirittura fino a sacrificare la vita (il frate). Ma fra Cristoforo non è sempre stato così. Lo ha cambiato l’incontro con Cristo. Così può dire: «L’amore, la più grande ditta che esista, perché non guadagna; perché si limita solo e sempre a dare. Fu allora, e fu all’amore, che Lui mi convertì. Non che, con questo, presumessi di cambiare la natura che m’era stata data; bensì, di mutarne il cammino».

Grande attenzione è rivolta anche al dramma che vive l’altro grande convertito del romanzo, l’Innominato. Straordinario per profondità è il discorso in cui l’Innominato, guardando dentro di sé, sorprende la radice del proprio male e della propria azione: «Ci sono momenti, ore ci sono, in cui sembra essere stato il niente, proprio e solo lui, il niente, ciò che abbiamo corteggiato, desiderato ed amato; ciò per cui abbiamo, sempre, tutto osato. Allora – vedi?- anche una fogliolina che tremi lì, sull’albero, par troppo piena di vita e bisogna strapparla». Un abisso di niente si apre nel cuore di fronte al male e al passato di iniquità. L’Innominato osa guardarlo e starci di fronte, comprendendo che la sofferenza, il dolore, la malattia sono il prezzo del peccato, da offrirsi per l’espiazione: «La paura, come la malattia e la morte, sono, teologicamente parlando, lo stipendium. Stipendium peccati, intendo. E io; io, sì, che per un momento urlo ancora come Innominato, quello stipendium, cioè quel prezzo, che è necessario, che bisogna – è inutile illuderci- bisogna- in un modo o nell’altro, pagare».

La conversione dell’Innominato si apre alla speranza di una vita diversa e alla comprensione della sofferenza alla luce del mistero della croce di Cristo. Al contrario, verso la fine del dramma, Don Rodrigo non vorrà guardare il proprio male, ma cercherà di strapparlo, svellerlo con la lama del coltello per non doverci fare i conti. Anche per lui sarà indispensabile incontrare la carità, la perfetta gratuità di Cristo, anche lui dovrà essere perdonato e abbracciato senza che sia lui a chiederlo. Il Maestro dice: «Occorre che non lui domandi pietà e perdono, bensì che altri, da sé, spontaneamente, quando lui ancora non intende chiederli, pietà e perdono gli offrano». Si intravede qui il mistero della comunione dei santi che è parte del mistero dell’Essere e che è carità. Il mistero dell’io è la «fraternità».

Veniamo allora alla conclusione del dramma di Testori. Come il romanzo I promessi sposi si era concluso con il sugo della storia, cioè con due parole che sintetizzassero cosa avessero imparato i due sposi novelli e più in generale che cosa l’autore avesse voluto comunicare al lettore, anche il Maestro si congeda dalla compagnia di attori con una sorta di testamento spirituale. Lascia andare i suoi allievi auspicando che possano ora loro creare nuove compagnie, diventare a loro volta maestri. Così come nella parabola esistenziale il figlio diventa a tempo opportuno padre, allo stesso modo l’allievo diventerà maestro se avrà saputo, a tempo debito, essere pienamente allievo. Ecco allora il congedo del maestro: «Cari, cari ragazzi! Così, ecco, così, come nelle scuole d’un tempo! Anzi, di tutti i tempi! […] Voi, superata questa lunghissima prova, trarrete dal vostro amore una nuova, grande famiglia. Come attori, non solo a voi, ma a tutti, cosa si può dire, congedandosi, il vostro vecchio maestro se non che, superata questa lunghissima prova, potete andar pel mondo, costruire altrettante compagnie, diventar, ecco, voi stessi maestri… Ve n’è bisogno. E voi, adesso, siete pronti. Se, poi, nella vita o qui, sulla scena incontrerete, com’è giusto, difficoltà, dolori, ansie, problemi, battete alla sua porta. Battete con volontà, con forza, con amore. Lei, v’aprirà». Chi ci risponderà? La speranza. 

Ecco allora il congedo del maestro: «Cari, cari ragazzi! Così, ecco, così, come nelle scuole d’un tempo! Anzi, di tutti i tempi! […] Voi, superata questa lunghissima prova, trarrete dal vostro amore una nuova, grande famiglia. Come attori, non solo a voi, ma a tutti, cosa si può dire, congedandosi, il vostro vecchio maestro se non che, superata questa lunghissima prova, potete andar pel mondo, costruire altrettante compagnie, diventar, ecco, voi stessi maestri… Ve n’è bisogno. E voi, adesso, siete pronti. Se, poi, nella vita o qui, sulla scena incontrerete, com’è giusto, difficoltà, dolori, ansie, problemi, battete alla sua porta. Battete con volontà, con forza, con amore. Lei, v’aprirà». Chi ci risponderà? La speranza.