Ci sono parole che hanno una storia antica che merita di essere rivendicata in tutto il suo valore anche per il presente. Una di queste, ampiamente dismessa nel riferimento alle sue origini è “ermeneutica”. Prima ancora che un indirizzo filosofico – quello che ruota intorno a Heidegger, Gadamer e Bultmann – il problema ermeneutico è qualcosa che ha a che fare con l’esperienza primordiale dell’uomo. 



Il pensiero contemporaneo non ha smarrito del tutto questo modo di porre il problema ermeneutico. Così, accanto alla filosofia ermeneutica su fondamento esistenzialista, c’è un indirizzo di pensiero che rivendica un diverso punto di partenza. È la linea che parte da Schleiermacher e, passando per Dilthey, arriva sino a Emilio Betti, un autore ancora troppo poco noto nella sua Italia che, per far valere le sue posizioni in un contesto di subalternità culturale (e anche teologica) alla scuola ermeneutica tedesca, osò sfidare Gadamer sul suo stesso terreno, pubblicando parte delle sue opere in tedesco. Ed è una linea che riprende in gran parte e rivitalizza l’antica ermeneutica come metodica della comprensione e come fondamento delle scienze dello spirito, cioè di tutte quelle aree della conoscenza che sfuggono al paradigma scientifico (post)galileiano. 



Del resto, se il latino “interpretari” appare composto dalla preposizione “inter” e dalla radice indoeuropea “prat/pret”, che significa “indicare, mostrare”, il termine greco “ermeneutica” rinvia a Ermete, il messaggero degli dei nella mitologia greca. C’è comunque un “andare tra”, un superamento del dato nella sua prima apparenza. Hermes, è «il dio dalle molte risorse», astuto, predone, guida di mandrie, apportatore di sogni … Ma  Hermes ha anche il ruolo di interprete, cioè di messaggero della volontà degli dei presso gli uomini. Nel Simposio Platone dice di Eros che è ermeneuon, mediatore, interprete, perché «interpreta e trasmette agli dei ciò che viene dagli uomini ed agli uomini ciò che viene dagli dei, degli uni le preghiere e i sacrifici, degli altri, invece, gli ordini e le ricompense per i sacrifici. Stando in mezzo fra gli uni e gli altri, riempie la distanza, in maniera tale che il tutto risulta collegato con se stesso» (Simposio, 202 e). 



L’ermeneutica ha dunque a che fare con la comunicazione e, più precisamente, con la comunicazione “simbolica”, quella che getta un ponte tra realtà lontane, che innesta il quotidiano con il suo significato nascosto. Contestualmente presuppone l’essere in mezzo come possibilità che riempie la distanza e stabilisce il collegamento. In quanto «interpretazione» essa è un atto della conoscenza e come tutta la conoscenza è un atto di relazione. Contro il realismo ingenuo, la conoscenza, per essere tale, è sempre relazione reciproca tra il conosciuto e il conoscente. 

Contro il soggettivismo autoreferenziale, la conoscenza, per essere vera, porta a incontrare un oggetto. In questo senso la conoscenza è sempre in qualche modo anche interpretazione, ma lo è soprattutto quando non si è davanti alle prove (o, in termini anglosassoni, alle evidenze) e/o alle dimostrazioni. La conoscenza è interpretazione nei suoi stessi fondamenti antropologici, quelli che precedono l’episteme, l’affermazione del percorso scientifico, e hanno a che fare con l’esperienza.

Non a caso la rivendicazione di un modello conoscitivo rigoroso, al di là del paradigma galileiano che ha dominato l’epoca moderna, viene soprattutto dalle conoscenze irriducibili. Non per nulla un autore come Emilio Betti ha formulato la sua teoria dell’ermeneutica come fondamento delle scienze dello spirito a partire dalle esigenze del diritto. Le scienze giuridiche devono mirare a un risultato, il giudizio, che non può lasciare nel limbo della soggettività questioni dirimenti per la convivenza sociale. Ma, ancor più radicalmente, la rivendicazione di un terreno impraticabile al modello esclusivo delle scienze della natura è venuto dalla medicina. Non è certo casuale che alle origini della rinascita di quello che Ginzburg chiamava il paradigma indiziario vi siano tre medici: Morelli, Freud e Conan Doyle… 

Carlo Ginzburg ce lo ha magistralmente ricordato con un suo saggio esemplare: Spie. Radici di un paradigma indiziario (Torino, 1978), rivendicando i legittimi diritti delle “scienze storiche” contro il monismo metodologico neopositivista e contro la riduzione retorica della conoscenza del costruttivismo. Ginzburg ci ha ricordato che la medicina non ha potuto fare a meno della capacità di «interpretare» i sintomi e ha in  qualche modo protetto l’ultima riserva moderna di scienza non riducibile al paradigma galileiano. Chi scrive, ne ha trattato in un suo proprio saggio (Conoscere per indizi, Arona 2010), che riprende un corso che si sta ripetendo proprio in queste settimane presso l’Università Cattolica di Milano. 

La conoscenza indiziaria è antica quanto l’uomo e continua a costituire una sfida tanto al razionalismo che allo scetticismo. La dimensione indiziaria della conoscenza rimanda a forme di certezza che derivano dall’esperienza, e non sono meno solide di quelle che derivano dalle prove o dalle dimostrazioni, solamente agiscono in ambiti e in direzioni conoscitive diverse. Diverso è il metodo, perché diverso è l’oggetto. È la conoscenza che parla di certezze che non si raggiungono per via dimostrativa. Senza nulla togliere a quest’ultima, la conoscenza indiziaria, che è, poi, un’unica cosa con la capacità di cogliere e interpretare gli indizi è un percorso di verità in cui l’episteme e l’esperienza non si escludono. 

Anzi, l’interpretazione degli indizi − e il mondo e la vita sono una selva di indizi più o meno nascosti – è l’altra faccia della conoscenza, non meno “scientifica” e non meno provvisoria di quella delle scienze della natura, ed è quella che, per le sue fondamenta antropologiche ed esistenziali, costituisce il punto di raccordo tra il cosiddetto realismo ingenuo di cui è fatta la nostra conoscenza di ogni giorno e la teoria della conoscenza, intesa in senso rigoroso. 

L’interpretare è un atto costitutivo dell’esperienza umana. L’uomo vive interpretando. La vita quotidiana dell’uomo sulla terra è un continuo interpretare, sin dalle sue origini. Ed è questione di vita o di morte, di salvezza o perdizione… Il cacciatore che interpreta le tracce della preda o dell’animale selvatico. La madre e il padre che, preoccupati, interpretano i segni della malattia del loro bambino. Il contadino che scruta il cielo e cerca di interpretarne i segni per proteggere il suo raccolto. L’astronomo, sacerdote e re, che dalla sua ziqqurat guarda la volta celeste e cerca di cogliere il ciclo delle stagioni e dei climi e i loro imprevisti. Tutti costoro hanno in comune l’atto dell’interpretare. L’ultimo, l’astronomo che è anche sacerdote, interpreta come in un atto cultuale, legge le stelle per cogliervi la verità nascosta e misteriosa. Le stelle e gli dei finiscono qui per essere una sola cosa e la volta celeste diviene a sua volta il velo che rivela e che nasconde, sulle cui tracce si può cogliere qualcosa del destino. 

Il cacciatore che si china a interpretare le tracce dell’animale che sta inseguendo, tra le pietre o nell’erba, che scruta il cielo, il mare o l’orizzonte interpreta, legge dei segni e, dunque, li riconosce come tali, e sa che essi significano qualcosa di certo. Nel contempo, attinge alla sapienza di chi lo ha preceduto, evita le mosse sbagliate e mette in atto la strategia giusta. Sa con certezza, ma in maniera diversa dall’animale, come porsi rispetto al vento. Sa con certezza che dove l’erba è alta può nascondersi il serpente e sa con certezza quale serpente sia velenoso e quale no. Ma c’è di più: i segni che coglie nella natura e che gli parlano, lo spingono anche a costruire lui stesso altri segni. L’impronta del cinghiale lo spinge a imitarne l’immagine, i rami che proteggono dalla pioggia, ma non dai fulmini, lo spingono a costruirsi lui stesso dei ripari. Ogni saggezza nasce dall’osservazione e ogni osservazione è scoperta di segni o indizi, dunque un andare oltre l’osservazione per costruire attraverso la conoscenza una scienza nuova.