In questa luce – di Daniele Del Giudice (Einaudi) – è un libro davvero insolito. Si tratta di una miscellanea comprendente testi editi e inediti dell’ormai sempre più appartato scrittore veneziano. Vi si trovano pagine narrative e riflessioni su temi da sempre cari al Nostro, come quelle sul tempo, sul linguaggio o sul volo; ma in esso si parla anche dei libri più amati da Del Giudice e della complessa operazione/fatica della scrittura. Non a caso l’incipit ci mostra l’io narrante costretto a misurarsi col foglio bianco: croce e delizia di ogni persona che intenda sperimentare la strana attività – a metà fra artigianato ed arte – che è lo stendere un libro, implicante il doversi mettere davanti a una tastiera di computer e: “ricostruire, sistemare, intuire, analizzare, sintetizzare, trovare un’immagine che faccia di carne il ragionamento ecc. ecc.”.



O forse, come suggerisce il Nostro, scrivere è una sorta di mania. Parola che oggi esprime un’inclinazione ossessiva, ma che in antico aveva una duplice, opposta valenza. Mania, infatti, non era solo “il demone che sconvolge la mente” ma pure una tendenza alla concentrazione estrema: una frenesia positiva per giungere a conoscenza e creatività. Resta che è piuttosto difficile trattare di un mestiere così particolare come quello dello scrittore. “La cosa migliore sarebbe avere delle idee sul proprio lavoro e augurarsi che siano sbagliate”, afferma con paradossale arguzia Del Giudice. Anche perché – soprattutto nell’ambito narrativo – per quanto a tavolino si possa progettare/imbastire una storia coi suoi bravi personaggi, poi essa ed essi andranno per la loro strada e l’autore verrà condotto con loro e, grazie a loro, chissà dove. Di conseguenza è forse un bene sperare che ogni progetto/schema venga poi superato dalla narrazione stessa, giacché: “nel racconto ciò che vale è proprio tutto quanto eccede e vanifica il progetto”.



Ancora, il pregio della scrittura starebbe non già nel dispiegare/illuminare con chiarezza una vicenda o una trama ma, al contrario, nel “custodire la parte in ombra che ogni parola porta con sé”. Poiché è giusto lì e solo lì, in tale zona d’ombra, che opera il lettore. Un libro ha quindi senso non se è esaustivamente completo, limpido e lineare (peraltro nulla lo è mai a questo mondo), ma se consente a chi legge di penetrare/interpretare la scrittura, scovandone elementi, rimandi o allusioni che – potremmo dire – sono presenti all’interno di essa, essendo impliciti o nascosti fra le righe del testo. Ogni narrazione è allora sempre e fatalmente metanarrativa, in quanto va ben oltre la storia raccontata e lo stesso linguaggio utilizzato dall’autore.



Vi è perciò una sorta di “mistero”, sostiene Del Giudice, che viene lumeggiato nell’atto stesso del narrare. Un mistero che non è mai possibile svelare del tutto, ma di cui la scrittura è rappresentazione. “In questa luce” troviamo quindi una buona dose di semioscurità, equivalente alla consapevolezza postmoderna di non poter mai chiarire/esaurire completamente e una volta per tutto questo o quell’aspetto del mondo o della vita. In detto ambito o disposizione umbratile sta la coscienza dell’instabilità e del mutamento a cui ogni cosa, situazione o persona è costretta. In questo modo di porsi sta infine l’attitudine ad accogliere ciò che appare diverso, conflittuale, altro da sé.

La carta geografica allora è l’immagine più felice dello strano oggetto astratto costituito dal racconto. E il viaggio migliore resta quello della mente, che supera la velocità della luce. Non a caso il cielo della letteratura antica è attraversato da oggetti e creature volanti − ci ricorda l’autore − ben prima che esistessero aerei o mongolfiere. Resta che il volo reale ha un vantaggio, consentendo non solo di raggiungere in fretta mete remote (viaggiare attraverso tutto il pianeta è stato fatto in lungo e in largo dagli umani ben prima dei fratelli Wright), ma in quanto “volare significa vivere la carta geografica”, farla propria e calarsi all’interno di essa “come in una narrazione”. Essendo la visione del pilota di un velivolo una vision oblique, una “visione prospettica che ci mette in una relazione dinamica con ciò verso cui voliamo”. Quello da cui invece bisogna guardarsi è l’illusione/presunzione di potere, staccando l’ombra da terra – per dirla con un fortunato titolo di Del Giudice −, prendere le distanze da una terrestrità dalla quale mai è invece possibile/auspicabile separarci del tutto.

Ben lo sapeva uno scrittore-pilota come Saint-Exupéry, che pur nei più arditi e fantasiosi voli della propria surreale espressività sempre di sentimenti ed emozioni umanissime e terrene trattò nei suoi libri. Per fortuna la svista di uno scrittore è assai diversa da quella di un pilota. Quest’ultimo, se sbaglia può far finire il suo volo in catastrofe, mentre la maldestra stesura di un romanzo può scatenare, al massimo, una “leggera, fugace ilarità”.