La diretta streaming delle riunioni politiche sta diventando trendy. Niente di male. Il problema è che nelle pieghe dei suoi utilizzi sempre più frequenti si nascondono alcuni presupposti per nulla scontati, che hanno a che vedere con il rapporto fra media e democrazie.

Prima di tutto, cos’è la diretta streaming? Potremmo definirla la sintesi 2.0 di due vecchi arnesi dei media analogici: la diretta televisiva e la video-telefonata. Della prima evoca l’impressione di assistere senza mediazione a un evento importante, di esserne spettatore e testimone, anche se la qualità è più bassa; della seconda mantiene la sensazione di comunicazione quasi-personale, simile a quella che proviamo in una seduta Skype o in una classica videoconferenza, anche se non possiamo interagire, e siamo spettatori anziché attori. Come i suoi antesignani, questo tipo di diretta dà l’impressione di immediatezza e spontaneità, ossia di una totale mancanza di costruzione. Si tratta di una sensazione che non corrisponde al vero, perché in essa si manifestano almeno due processi di messa in scena: quella tecnologica (le telecamere stanno in un posto e non in un altro, a una certa distanza da questo o da quel protagonista e così via) e quella teatrale (gli attori sanno di essere ripresi; i loro gesti e le loro parole sono sempre sospettabili di essere compiuti o pronunciati per il pubblico anziché per gli interlocutori in presenza, eccetera). Dunque la diretta streaming non è più vera del racconto verbale di un giornalista o un protagonista, ma è solamente più verosimile, e produce un effetto-presenza che convince e rassicura. 



Tuttavia la componente tecnologica, da sola, non basta a spiegare il successo di cui la diretta streaming gode oggi, in contrapposizione ad altre forme di racconto (e di mediazione) della politica. È piuttosto il suo background culturale a renderla così significativa e a farne quasi un simbolo delle speranze e velleità di trasformazione della società, in tempi in cui la politica è screditata proprio perché ha coperto troppi sotterfugi (che per definizione non sono esibiti) e perché chi la doveva raccontare (i giornalisti e i media informativi) non è stato sempre capace di – o abbastanza onesto per – farlo.



In effetti lo streaming utilizzato in occasione di riunioni politiche sembra cancellare la mediazione giornalistica, e insieme mette i politici sotto osservazione diretta da parte dei cittadini, sottintendendo la fine di due forme di fiducia su cui si basa la società democratica: la prima è quella nella “rappresentanza”, ossia nei processi di selezione del personale politico cui viene delegato il compito di dialogare con altre componenti in cerca di compromessi costruttivi e di soluzioni che sintetizzino aspirazioni e bisogni a prima vista divergenti. 

La seconda forma di fiducia che viene meno è quella dell’informazione come “quarto potere”, capace di esercitare la funzione di “cane da guardia” della politica e dei suoi processi in nome del (cittadino) lettore o spettatore.



Il background culturale che enfatizza il ruolo della diretta streaming, ossia di una presunta trasparenza dei processi della politica, vede queste due mediazioni come una stortura. L’argomento implicito è più o meno il seguente: poiché il personale politico tradizionale e gli organi di informazione hanno abusato del loro ruolo, chiudendosi in caste a difesa dei propri interessi, l’unica via d’uscita è la loro sostituzione con una nuova cittadinanza “direttamente implicata nelle decisioni”, soprattutto attraverso la nuova risorsa del web 2.0. 

L’argomento è contestabile per diverse ragioni. In primo luogo la crisi del giornalismo non dimostra affatto che l’abolizione della professione giornalistica (e la sua sostituzione con forme di giornalismo amatoriale dal basso) sia la soluzione. Sembrerebbe più ovvio pensare ad azioni capaci di riportare questa essenziale componente dei processi democratici a esercitare una informazione competente e accurata. 

In secondo luogo, il rifiuto tout-court della mediazione politica dei partiti non sembra la soluzione adatta alla crisi della democrazia: la presenza di alcune figure incompetenti e qualche volta criminali tra i politici di professione non significa affatto che tutta la rappresentanza politica debba essere solo di quel tipo. E d’altronde, il cittadino che si assume il compito di controllare ciò che i politici dicono, decidono e fanno (in funzione della rappresentanza per cui sono stati votati), ha sempre le competenze e la maturità per poter esercitare una funzione così delicata, che le Costituzioni democratiche assegnano all’equilibrio tra i poteri?

Al fondo del background culturale che esalta il valore della diretta streaming per la politica c’è dunque il riemergere di una concezione di democrazia diretta come unica panacea alla crisi sociale e istituzionale. E qui emerge l’utopismo della speranza che il cittadino in quanto tale sia meglio sempre e comunque di chi lo governa; che le scelte politiche siano semplici e non richiedano formazione specifica; che chi ha la possibilità (economica, culturale, tecnologica) di informarsi via web meriti di divenire una élite da nessuno nominata, cui spetterebbero i compiti che le istituzioni sono chiamate a svolgere nella democrazia rappresentativa.