Quanti dossier sono stati riaperti di un Medioevo improvvisamente vicino, specchio delle nostre vicissitudini. I nomi di Francesco d’Assisi, Celestino V, Dante Alighieri riappaiono contemporanei; qualcuno ha aggiunto anche quello di Gioacchino da Fiore. Sappiamo accostarli, simili profili, senza pesanti riduzioni, recuperiamo una percezione non distorta del loro spessore? Qualunque colore abbia la nostra idea di partenza, dovrebbe essere un’idea disposta a mettersi in questione. E sarà opportuno rendere problema ciò che scivola verso il luogo comune.
Nella galleria di personalità così illustri, precede, in ordine di tempo, Gioacchino di Calabria, il monaco assorto, l’asceta in ritiro sull’Appennino più remoto, e più gelido, per meditare la pagina biblica, estrarne sentori, avvisaglie, premonizioni, il sogno di una futura terza età interamente sottomessa allo Spirito Santo. È tramontata da tempo l’interpretazione di Gioacchino come primo membro di una triade completata da san Francesco e da Dante: con l’abate calabrese, a ben vedere, la Divina Commedia non ha molto in comune, la spiritualità del Poverello pressoché nulla. Il fatto è che Gioacchino, come vide già con perspicacia Henri de Lubac, separa stranamente la terza persona trinitaria dalla seconda, quando invece si tratta dello Spirito di Cristo, pienamente attivo nella storia a partire da Pentecoste. Se un regno della pace e della libertà si dirama sulla terra, questo regno è già presente, è Cristo stesso; il dinamismo storico è quello continuamente riattivato da lui, la crescita che adegua nuove tappe è il rivelarsi graduale della sua novità. La fede dei santi è cristocentrica; in special modo, la fede di Francesco, sin dalla conversione che lo portò ad abbandonare il saeculum.
Così, è veramente difficile associare Gioacchino a Francesco. E si rivela malferma la stessa opinione che il primo, in un suo celebre vaticinio, abbia annunciato profeticamente il secondo. Quando Gioacchino parla di due nuovi ordini religiosi, prefigura altrettante avanguardie della trasformazione da lui preconizzata, pensa ad audaci pattuglie votate a promuovere il transito dall’età di Cristo all’età dello Spirito; nel Duecento, è vero, una voce diffusa applicò la suddetta profezia a francescani e domenicani, ma per farlo dovette rimuovere un contenuto eversivo.
“O Francesco povero”, esclamava Iacopone da Todi, irrequieto e turbolento frate minore con quell’icona davanti agli occhi. Non era certo il solo a valorizzare la povertà del santo di Assisi. Uno scritto duecentesco, il Sacrum Commercium S. Francisci cum domina Paupertate, vuol essere esplicito: “signora” e “regina” è appunto la povertà, già sposa di Cristo, adesso amata da Francesco e onorata dai frati minori, che sono al servizio di lei.
Parte da qui, e dalla Vita secunda di Tommaso da Celano, l’idea che Francesco, assecondando la sua sensibilità cavalleresca, vedesse in Cristo un feudatario e nella povertà la rispettiva moglie, la castellana da rispettare e da servire, con la fedeltà cui è tenuto ogni leale vassallo.
In Tommaso da Celano, anzi, lo sposalizio si celebra senz’altro tra la povertà e Francesco, il quale si commuove a veder disprezzata da tutti una donna già intima del Figlio di Dio. Metafora efficacissima, destinata a impressionare anche Dante. Quanto agli storici, hanno fatto opera di minuziosa, paziente filologia, confrontando questi scritti con le pagine del santo, dove paupertas è virtù assieme ad altre, l’amore fraterno, la fedeltà all’ortodossia, l’obbedienza ai superiori, la soggezione alla gerarchia ecclesiastica; disposizioni, come si vede, un po’ meno appetibili a palati moderni. Che il Sacrum Commercium e Tommaso da Celano imprimano un accento è fuor di dubbio. Ma risolutivo è l’orizzonte in cui tutte le virtù francescane si inscrivono, traendone giustificazione e orientamento.
È nota l’originaria insofferenza di Francesco verso ogni ventilata normazione della sua esperienza, dell’avventura vissuta giorno per giorno insieme al libero manipolo di seguaci. A dettare una Regola, il santo si rassegnò solo in un secondo momento, quando il gruppuscolo, fuori da ogni progetto e previsione, era prodigiosamente cresciuto, e dei suggerimenti andavano pur formalizzati, magari anche alcuni obblighi.
Ma ecco l’attacco della prima Regola, quella non bullata del 1221: “Regola e vita di codesti frati è questa, vivere in obbedienza, in castità e senza nulla di proprio, e seguire la dottrina e le tracce di nostro Signore Gesù Cristo”. Da notare che l’enumerazione iniziale dei tre voti fu inserita solo successivamente, dietro insistenza della Curia romana, preoccupata di ricondurre, appunto, a quei doveri – impegnativi certo, ma pur circoscritti, ma pur accessibili alla massa dei frati – la prospettiva vertiginosa di Francesco, “Jesu Christi doctrinam et vestigia sequi”. La formulazione non cambierà gran che nella Regola definitiva, dove l’indicazione di fondo è: “osservare il santo Vangelo di nostro Signore Gesù Cristo”. Ecco ciò che conta per Francesco, seguire Cristo, e seguirlo integralmente, si direbbe senza condizioni, con l’atteggiamento insomma di chi ama, e vuole solo l’amato, l’unità con lui. Sì, una normativa bisognerà anche consegnarla ai frati, ma non come frontiera di un dovere, raggiunta la quale si è fatto tutto, semmai come condizione dell’incondizionato. In fondo, Dante stesso, quando rilancia la metafora delle mistiche nozze con Madonna Povertà, conferma che c’è un solo modo di presentare Francesco: lo restituisce davvero chi ravvisa in lui l’amante.
La personalità di Pier da Morrone, poi papa Celestino, ha sofferto non poco di reazioni a caldo e di simpatie riduttive: allo sconcerto di alcuni per il suo gesto senza precedenti si è infatti alternato un consenso nutrito di ragioni parziali o dubbie. La letteratura ha ospitato tutti questi atteggiamenti, tanto nel Medioevo quanto in anni a noi prossimi. Non pare lecito smussare la durezza di Dante: l’innominato del canto III dell’Inferno è quasi certamente Celestino, le interpretazioni alternative manifestano prudenza senza riuscire a convincere. D’altra parte, l’apologia dell’eremita e pontefice abruzzese tessuta da Petrarca nel De vita solitaria, in polemica non dissimulata con Dante, approva l’amore della solitudine, e in questo modo esprime anche una vicinanza, ma concede troppo al temperamento.
Ancor più forte la sovrapposizione dell’interprete, coi suoi personali interrogativi e assilli, nell’Avventura d’un povero cristiano, ultima, impegnata opera di Ignazio Silone, che fa di Celestino un eroe della denuncia del potere, ritenuto intrinsecamente negativo e perciò irredimibile. Da non sottovalutare, invece, l’anonima lauda abruzzese che, nella sua grezza semplicità, offre a “San Petro Celestino” una devozione non estemporanea: “De poy che del papato fusti fore, / che renunzasti per tua humilitate, / fo tanta accepta la toa sanctitate; / la Ecclesia tra beati te fa honore”. Umiltà: la presa d’atto di una inadeguatezza, la sua ammissione per amore del ministero, che va salvaguardato a prescindere da ogni ansia per il prestigio personale e le reazioni del mondo. L’ignoto versificatore, fra l’altro, punta sulla motivazione non “politica” della beatificazione, avvenuta nel maggio 1313, mentre ancora gravava la pesante eredità del pontificato di Bonifacio VIII. Morto da qualche anno quel papa, perdurava lo scontro tra i sostenitori della sua linea e quegli avversari che ritenevano invalida e nulla la sua elezione, seguita alla “illegittima” rinuncia di Celestino. La lauda abruzzese, ovviamente, non fa parola di calcoli e strategie della Curia. Forse, non ha tutti i torti.