I fondatori dello stoicismo non erano greci: erano semiti. Da Talete ad Aristotele la filosofia era sempre stata l’espressione per eccellenza della grecità, e non a caso un fortilizio tendenzialmente ionico-attico. I grandi maestri o venivano dalle coste della grecissima Ionia (Anassagora, Eraclito) o da Atene medesima (Socrate, Platone, Epicuro) o da colonie dell’Italia meridionale di integrale cultura ellenica (Parmenide, Empedocle). Con la filosofia stoica il baricentro si sposta. Dieci anni dopo la morte di Aristotele – dieci anni, soprattutto, dopo la morte di Alessandro Magno – giunge ad Atene un giovane cipriota di nome Zenone. La scuola da lui fondata in un «Portico» (stoa) avrebbe avuto nei secoli una fortuna enorme: conquistando le élites culturali e politiche (da Seneca all’imperatore Marco Aurelio), penetrando in tradizioni sapienziali apparentemente impermeabili come quella giudaica (dal Libro della Sapienza agli scritti dell’alessandrino Filone) e riuscendo a mantenere per mezzo millennio una straordinaria capacità di attrazione e di adattamento. Ma Zenone non era né ione né ateniese. Veniva da Cizio, dalla costa orientale della grande isola che guarda al “Medio Oriente”. Ed era un fenicio; suo padre si chiamava Mnaseas, forse un adattamento di Manasse o Menahem, come molti ebrei trapiantati in Europa hanno adattato il proprio nome da Mordechai a Mark. 



La novità non sfuggì agli antichi: Zenone aveva la pelle scura, con spregio era chiamato il “Fenicetto”; e Crisippo, un altro dei fondatori della Stoa, aveva imparato il greco soltanto come seconda lingua, pagando con la derisione certe sue singolarità espressive. Ma è soprattutto in epoca moderna che ci si è chiesti sistematicamente se ci fosse una diretta relazione tra i caratteri della filosofia stoica e l’origine semitica dei fondatori. E in tal senso forse non stupisce che lo studio più articolato e complesso in questa direzione fosse compiuto nel secondo ventennio del secolo scorso da un principe della filologia tedesca come Max Pohlenz.



Per lui, come per moltissimi studiosi guidati, com’è stato scritto, da una «vecchia fissazione positivistica», il rapporto tra «popolo» e «spirito», tra Volkstum e Geist, non era accessorio ma fondante. Nel Volkstum ci sono caratteri inalienabili che determinano in profondo il pensiero: «Se oggi un giapponese di 22 anni venisse in Germania dalla sua madrepatria e dopo dieci anni da noi ottenesse una cattedra di filosofia, chi di noi gli riconoscerebbe un pensiero genuinamente tedesco?». 

Di fronte a questa domanda per Pohlenz non c’era che una soluzione: vestire i panni del chirurgo e distinguere nel fenicio di 22 anni che aveva aperto una nuova “cattedra di filosofia” ad Atene le componenti semitiche originarie da quelle elleniche acquisite. Il creazionismo, l’antropocentrismo, il rigorismo etico, il senso di una provvidenza divina che tutto determina: per Pohlenz questi snodi cruciali della filosofia stoica non trovavano il pari nella storia del pensiero greco, e andavano dunque ascritti all’originario e quasi biblico «semitismo» della nuova scuola. 



E poi persino l’intransigenza, il radicalismo, la cavillosità dialettica (talmudica!), fino agli aspetti più retrivi dell’indagine razzistoide: l’avarizia di Zenone, i lineamenti del volto di Crisippo, persino l’inclinazione del naso. Sul sensibilissimo bilancino dello spirito, o sui più grevi cliché del pregiudizio, tutte le componenti della filosofia stoica potevano essere distinte tra «greco» e «semita».

Interpretazione razzista? Un pegno pagato a una lettura nazista dell’antico? Negli anni del nazionalsocialismo Pohlenz fece di tutto per salvare colleghi e allievi ebrei dalla persecuzione. Conservatore, ostile alla Repubblica di Weimar, eppure disgustato dalla primitiva e criminale rozzezza di Hitler, si tenne distante dal regime, vi entrò in conflitto e ne fu a suo modo vittima. Ma non poté sfuggirne le conseguenze. Il suo grande e tuttora fondamentale libro sulla Stoa, composto di fatto tra il 1938 e il 1943, concepito per questo come sostegno «morale» e «interiore», «per il nostro presente», e non a caso dedicato ai suoi discepoli, «ai vivi e ai morti», poté essere stampato soltanto dopo la guerra, nel 1948. Approdò quindi all’attenzione internazionale in un momento in cui la lacerazione inflitta dalla persecuzione antisemita aveva appena iniziato a rivelare i suoi abissi ed era ancora sommamente purulenta. Colleghi ebrei di Pohlenz, fuggiti in America, stroncarono il libro. Per loro le «etichette razziali» non erano state un esercizio libresco. Così anche la Stoa dovette fare i conti con la Shoah.

Va detto che a levarsi contro questa lettura «semitica» fu per tempo una voce che non ebbe bisogno di attendere i forni crematori. In un ciclo di lezioni riservate a un pubblico ristretto dell’Università di Monaco, tra il 1933 e il 1934, il vecchio e autorevolissimo Eduard Schwartz smontò con efficacia il paradigma interpretativo di Pohlenz.

Schwartz non negava di certo l’origine orientale dei primi stoici, ma ne misurava le ricadute non già sul fronte teoretico, o volgarmente razziale, sezionando gli elementi semitici e greci del loro pensiero come in una sorta di chirurgia spirituale, ma sul fronte più nobilmente politico, vale a dire sulla «capacità», storicamente dimostrata dalla filosofia stoica, «di adeguarsi ai rapporti politici nei quali si trovò a operare». Era questo il carattere che ne segnò la fortuna: la capacità di rimodellare e difendere nei più diversi contesti il nucleo identitario di una grecità acquisita e proprio per questo più protetta. Schwartz applicava quindi a questa filosofia la produttiva dialettica tra centro e periferia. Lo stoicismo si afferma proprio perché i suoi fondatori, partendo dalla moderna periferia ellenizzata, sanno meglio intendere la missione universalistica dell’antico centro ellenico. Lo stoico è un frontierasco: per sua diretta esperienza conosce la necessità del compromesso e la difesa di un’identità minacciata. 

Non era una lettura meno “ideologica”: era anch’essa pesantemente influenzata da una diversa esperienza personale, e diremo da una diversa guerra. Schwartz aveva insegnato per anni a Strasburgo, e per la germanizzazione, anche forzata, dell’Alsazia-Lorena si era battuto con impegno non solo professorale. Da ragazzo aveva visto il trionfo a Sedan sulla Francia di Napoleone III, da adulto la catastrofe della Prima guerra mondiale. Due figli caduti sul fronte, un terzo sopravvissuto ma mutilato; e poi la caduta dell’Impero, la perdita dell’amata Strasburgo, la cancellazione della sua università tedesca, la fuga a piedi con una valigia stipata di manoscritti, e alle spalle tanti, troppi documenti esplosivi. Uno si conserva ancora nella Biblioteca di Strasburgo, e bastò ai Francesi per dargli la caccia: un’indagine «strettamente riservata», un appello lanciato al governo tedesco perché si intervenisse pesantemente sui Reichslande di confine, si revocasse loro l’autonomia, li si annettesse a uno Stato «di più antica e solida identità tedesca», imponendo definitivamente la cultura germanica a una terra di reviviscente e pericolosa identità francese.

Nella Cizio di Zenone, Schwartz rivedeva insomma la sua Strasburgo: la dinamica concorrenziale in terra di confine tra greci e semiti come tra tedeschi e francesi. Era una lettura attualizzante dell’ellenismo: l’allargamento delle frontiere, il trasferimento del centro intellettuale greco da Atene al Museo di Alessandria d’Egitto, come dal cuore antico della Germania all’università periferica di Strasburgo.

Purtroppo all’orizzonte c’era Roma: il nuovo impero, il tracollo della grecità. Ed è con questa angosciante, indomita e in tal senso davvero stoica consapevolezza che Schwartz vide la Francia distruggere il Reich tedesco.


Luciano Bossina è autore de “Stoa, Ellenismo e catastrofe tedesca”, Edizioni di pagina, Bari, 2013