Caro direttore, «Il nulla, certo, nessuno è mai ritornato per assicurarci che esiste. Ma neppure l’aldilà si manifesta molto più chiaramente». Non avevo finito di leggere l’edizione italiana de Il Paradiso alla porta (Lindau 2013), l’ultimo libro di Fabrice Hadjadj da cui è tratta questa frase, quando il 13 marzo la Chiesa ha richiamato la nostra coscienza alla verità e al bene, eleggendo il cardinale Jorge Mario Bergoglio alla Cattedra di Pietro.
Papa Bergoglio ci ha colti tutti di sorpresa e non poteva quindi non palesarsi la tentazione di rimandare la lettura del libro di Hadjadj e impiegare il poco tempo che resta sottratto alle occupazioni quotidiane per cercare di saperne di più sul nuovo Papa. E così ho fatto, salvo poi scoprire che la frase (e il libro) del filosofo cattolico franco-algerino (classe 1972) poteva tornare utile proprio per comprendere meglio quello che sta succedendo in questo momento fondamentale per la Chiesa e per il mondo.
A parte Vittorio Messori, personalmente non mi è giunta voce di altri che avessero previsto, durante i giorni del Conclave, che dalla Loggia della Basilica di San Pietro potesse affacciarsi il cardinale di Buenos Aires. E ciò non solo perché, a un certo punto, si era detto che i più favoriti tra i cardinali elettori erano altri, ma anche per un motivo che forse poco ha a che vedere con i pronostici della carta stampata e con le scommesse che hanno avuto luogo sulle scrivanie degli uffici.
Meno di una settimana dopo l’elezione (eravamo precisamente nel pomeriggio della vigilia della Messa di inizio Pontificato) un amico, che mi diceva esser rimasto sorpreso all’annuncio del nome del nuovo Papa, aveva subito trovato le parole che integravano quella sua sensazione che la sera del 13 marzo era stata anche la mia: «Poi, però, seguendolo….». Qualcosa mi dice che la nostra Europa non abbia gli strumenti intellettuali che le permettano di esprimere un giudizio definitivo su quello che è successo e sulla persona che è stata scelta per guidare la Chiesa.
Siamo, noi europei, tutti (e non solo i “ratzingeriani” della prima ora) abituati a voler capire prima di seguire, a causa non certo (o non solo) di un viziaccio razionalistico che ci portiamo dentro fin da prima dell’illuminismo, ma anche di qualcosa che ci caratterizza, nel bene, come la gente del vecchio mondo: il nostro bisogno di capire, di vedere come quello che accade c’entri con la nostra esperienza personale si radica nella nostra natura di persone che hanno da sempre concepito l’esistenza inseparabilmente dalla comunità e dalla terra sulla quale sono cresciute.
Ma la forma delle Chiese barocche italiane dovette, a un certo punto, essere ripetuta nel Sudamerica affinché quei popoli potessero conservare la fede in Cristo. In Argentina, è la forte presenza di italiani a rendere la parlata spagnola a noi più comprensibile rispetto a quella degli altri popoli ispano-americani e anche degli stessi spagnoli. Eppure quella gente non è come noi, perché vive un Occidente diverso dal nostro, un mondo che può essere nuovo in quanto frutto di un distacco dalle proprie radici che noi non riusciamo a capire per non averlo vissuto.
Se, come ha spiegato il papa stesso al primo Angelus di domenica 17 marzo, il senso del chiamarsi Francesco dice anche di un legame con l’Italia dove sono le radici della sua famiglia, anche con la sua storia personale forse il nuovo Papa sarà capace di far riscoprire a noi stessi quegli europei che avremmo potuto essere e non siamo, a causa di un errore della ragione che non può venire imputato ad altri che a noi stessi.
Quella di papa Bergoglio è una novità che, per aver superato il crinale dell’Europa, salva la nostra storia e dà un senso alla tradizione nel suo significato di rendere disponibile qualcosa per il futuro. A differenza di quanto succede in Oriente con il capitalismo selvaggio cinese, tale novità non deriva da un impazzimento delirante della ragione strumentale e tecnicista e vive, invece, dell’eco di un contesto ancora tardo-medioevale, dove cattedrale e palazzo del governo si guardano ai bordi di una stessa piazza e un Arcivescovo può spostarsi da solo in metropolitana e vivere in un comune appartamento.
C’è un realismo in tutto ciò, certo, ma mi permetto di dire che non è lo stesso realismo al quale è arrivata la cattolicità europea, in quanto mi sembra muoversi secondo un passo che, nel bene e nel male, si rapporta alla propria radice europea inevitabilmente ed esclusivamente in termini di nostalgia e che quindi, ultimamente, non riesce a non percepirsi come, in buona parte, estraneo a quella radice. L’amicizia personale (lo abbiamo visto alla Messa di inizio Pontificato) che papa Bergoglio dimostra nei confronti di alcune singole persone appartenenti alle classi più umili di Buenos Aires è la prova di questo nuovo passo. Esso intende la civiltà in un modo che rompe completamente alcuni importanti schematismi della razionalità europea, orientati all’astrazione e all’ideologia, e porta a non immaginare che possa nascere una lotta tra conservatorismo e progressismo: a Buenos Aires, essere Vescovo conservatore in polemica contro il governo che legalizza i matrimoni gay significa vivere come un proletario qualsiasi ed essere amico di gente povera.
Oggi, il realismo dell’Europa cattolica è quello che, per salvare lo spirituale dalla deriva ideologica di tipo spiritualista, afferma, con Hadjadj, che il Paradiso è non solo nell’aldilà, ma anche “alla porta”, cioè quotidianamente esperibile nella virtù dell’uomo buono: altrimenti, conclude il filosofo, l’aldilà non «si manifesta molto più chiaramente» del nulla.
Da questo Papa dovremo aspettarci una lezione su cosa significa essere spirituali a partire da quel realismo nuovo che non può più contare sui vecchi strumenti del confronto con la sua antitesi ideologica. A un’Europa che ha perso il soprannaturale a causa di una contraffazione materialistica e razionalistica del realismo, papa Francesco rilancerà lo spirituale, ma aggiungendo che qualsiasi metodo della ragione deve conformarsi al proprio oggetto: Gesù Cristo.