Quando, il 25 dicembre 1995, fu data notizia della sua scomparsa, Emmanuel Levinas era noto in tutto il mondo come uno dei principali filosofi del nostro tempo. Della sua vita, molto era conosciuto, anche perché non mancavano biografie che ne raccontavano, più o meno dettagliatamente, fasi, momenti, sviluppi. Quasi vent’anni fa, dunque, era già noto che il filosofo di origine lituana (era nato a Kovno, oggi Kaunas, nel 1905) e naturalizzato francese, aveva trascorso cinque lunghi anni come prigioniero di guerra in alcuni campi di lavoro tedeschi. Levinas, proverbialmente ritroso e poco incline al racconto di sé, non aveva mai accennato al fatto che durante questo periodo, seppure in maniera fortunosa e intermittente, era riuscito ad annotare su taccuini e fogli sparsi alcune delle intuizioni che verranno sviluppate nelle opere della maturità intellettuale e, in particolare, in Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità (1961) e Altrimenti che essere o al di là dell’essenza (1974). Queste opere hanno la potenza d’urto teorica che non smette di interrogare chiunque intenda la pratica della filosofia come il concreto esodo da ogni supposta realtà suggerita dal senso comune. 



Dopo la morte del filosofo, dunque, tra le carte del lascito testamentario (attualmente in fase di catalogazione da parte di un comitato scientifico presieduto da Jean-Luc Marion), sono stati ritrovati sette quaderni che hanno inaugurato la pubblicazione degli inediti di Levinas che in Italia escono presso Bompiani. Con il titolo Quaderni di prigionia e altri scritti, dunque, viene offerta la possibilità di osservare “in presa diretta” la genesi di un pensiero che procede senza una direzione precostituita e che, forse non casualmente, comincia a muovere i primi passi non nel silenzio di accoglienti biblioteche, ma nel drammatico rincorrersi di giorni in cui il letterale essere “prigionieri”, oltre a sofferenze, disperazioni e lutti, offre “un ritmo nuovo della vita”. 



Nell’immenso zibaldone di frammenti e note, infatti, si mescolano scrittura filosofica, scrittura letteraria e scrittura critica accomunate dalla medesima esigenza: considerare le esperienze che strutturano l’uomo (l’amore, la guerra, il rapporto con le cose) come incessante domanda di senso che non riesce a “sentirsi a casa propria” in nessuna delle risposte che pure prova a formulare.

Ecco dunque profilarsi, nel cantiere dei Quaderni, l’idea che deve essere possibile uscire dall’“ingombro dell’io”, perché “la vita non è uno svago turistico”: l’irruzione dell’altro manda in frantumi quell’immagine di uomo che, soprattutto in virtù delle “meraviglie della scienza”, credeva di essere “meccanismo in mezzo ad altri meccanismi, piccolo orologio che riproduceva il battito del tempo astronomico e che non poteva scartarsene se non per segnare un’ora sbagliata”. 



Nella concretezza di un’esistenza che la prigionia riduce all’essenziale, nella privazione in cui povertà e fame negano qualunque possesso, qualunque “proprietà”, è possibile, per quanto paradossale possa sembrare, “imparare la libertà”. Una libertà che, scriverà Levinas molti anni dopo l’esperienza della prigionia, è “difficile”. Difficile perché non può essere separata dalla responsabilità, vale a dire dal riconoscimento di un primato dell’altro che non si aggiunge al “nostro” mondo (magari adeguandosi ad esso), ma è egli stesso un mondo, anzi, “il” mondo di cui dobbiamo farci carico.

In questo senso, allora, sono particolarmente significative le note che investono il lavoro della letteratura e della poesia: Ariosto, Dante, Proust, Bloy, Puškin, vengono interrogati da Levinas come voci di un linguaggio che, soprattutto grazie alla metafora, può parlare al di là delle rigidità e degli stretti confini di una “ordinarietà” che livella i molteplici piani della realtà e trasforma il mondo in uno spettacolo da guardare. L’uomo “insediato” si preoccupa essenzialmente della soddisfazione di bisogni da cui si fa rassicurare e che intende come il modo in cui può “conoscere se stesso”, come già recitava l’esortazione iscritta sul tempio dell’oracolo di Delfi, mentre Levinas, in un folgorante aforisma, scriverà “Ignora ‒ te stesso”. 

In questo rovesciamento, che forse condensa il senso ultimo della sua ricerca, colpisce non tanto il gioco retorico, quanto l’idea che il pensiero, la vita, il loro mobile intrecciarsi e rinviarsi, possano procedere non attraverso l’accumulo o il guadagno, ma grazie ad una spoliazione, una perdita, un “fare spazio” in cui l’umano scopre di essere non soltanto bisogno, ma Desiderio. Desiderio che permette all’umano di oltrepassarsi e che, come recitano le sempre incerte etimologie, proviene direttamente dagli astri, dalle stelle (sidera): il desiderio, dunque, come traccia dell’infinito, suo inestinguibile insinuarsi nelle parole e negli atti come ingiunzione a non rimanere sterilmente attaccati ad essi. 

Desiderio come “al di là”, “avvenire dell’avvenire” in cui le parole, seppure destinate a franare, lasciano balenare, per un impercettibile istante, quella “terra in cui non siamo stati” ma verso la quale, instancabilmente, ci muoviamo.


I primi due volumi dell’opera inedita di Emmanuel Levinas “Quaderni di prigionia e altri saggi” (Bompiani 2011); “Parole e silenzio e altre conferenze inedite” (Bompiani 2012) saranno presentati, su iniziativa di Prologos, lunedì 8 aprile 2013, ore 16,30, presso ICLeS, via Settembrini, 17, Milano. Interverranno: Edoardo Ferrario (Università di Roma La Sapienza); Mario Vergani (Universià di Milano Bicocca), il curatore dell’edizione italiana Silvano Facioni (Università della Calabria).