«Per te sarebbe meglio che non venisse la domenica; perché il giorno dopo sei come se fossi malato». Ecco quello che era meglio per lui, che non venisse mai la domenica! e gli cascava il cuore per terra a pensare che tutti i giorni fossero dei lunedì.
La prospettiva dell’eterno ripetersi dei lunedì stringe il cuore di ’Ntoni Malavoglia. Ma non solo il suo: perché ogni lunedì tocca a ciascuno di noi fare i conti con la malavoglia, con la svogliatezza della ripresa. «Il lunedì tornò a fare il muso lungo», come se cominciare – o ricominciare – fosse la vera, ineludibile tragedia dell’esistenza. ’Ntoni non vede il senso del lavoro, e gli manca l’energia. Per la sua famiglia, da sempre abituata a lavorare tranquillamente, è una triste novità, che la spiazza: per la prima volta – dopo secoli in cui era stato facile, praticamente automatico – non riesce a comunicare un perché convincente alla fatica quotidiana.
Qualche decennio più tardi Charles Péguy scriverà che «siamo stati allevati nel seno di un popolo allegro. Un cantiere era allora un luogo della terra dove gli uomini erano felici. Oggi un cantiere è un luogo della terra dove gli uomini recriminano. […] Nella maggior parte dei luoghi di lavoro si cantava; oggi vi si sbuffa. […] Lo si creda o no, fa lo stesso, abbiamo conosciuto operai che avevano voglia di lavorare. Abbiamo conosciuto operai che, al risveglio, pensavano solo al lavoro. Si alzavano la mattina – e a quale ora – cantando all’idea di andare al lavoro».
E se il «muso lungo» di quella pecora nera di ’Ntoni, che tante lacrime fa versare segretamente a sua mamma Maruzza, fosse invece una grande occasione? Non solo per i suoi familiari, ma anche per noi, lettori di un secolo e mezzo dopo, che ci troviamo davanti noi stessi e i nostri figli e i nostri studenti che vorrebbero rimanersene «colle mani sulla pancia, la domenica e il lunedì, ed anche gli altri giorni», e che non riescono proprio a capire come si possa giorno dopo giorno accettare il sacrificio, da dove si debbano andare a pescare le forze, come sia possibile lavorare cantando.
«- Sì! brontolò ’Ntoni, intanto, quando avremo sudato e faticato per […] ricuperar la casa del nespolo, dovremo continuare a logorarci la vita dal lunedì al sabato; e saremo sempre da capo!». Le sue domande rabbiose – «voglio godermi quel po’ di bene che posso trovare, giacché è inutile logorarmi la pelle per niente! E poi? quando avrete la casa? e quando avrete la barca? E poi?» – ci costringono, se ci sentiamo già a posto, tranquilli nel nostro senso del dovere, a fare i conti con il nòcciolo duro del lunedì, con che cosa renda interessante riprendere e lavorare.
Ma il problema del lunedì viene prima del lunedì. Viene esattamente un giorno (o un giorno e mezzo) prima. Perché ogni lunedì (come tutti i tifosi di calcio sanno benissimo) si rende evidente quello che è stata la domenica, diciamo leopardianamente il «dì di festa». Ciò che un uomo è si vede da come usa il «dì di festa», ma il modo in cui viene usato il «dì di festa» si vede quando arriva il giorno normale; la domenica viene a galla il lunedì. Perché la domenica è etimologicamente il giorno del dominus, e ciascuno testimonia, semplicemente attraverso quello che fa, quale sia il suo dominus.
Per ’Ntoni la domenica è vuota: «si rompeva le mascelle a sbadigliare tutto quel giorno in cui non aveva nulla da fare, e non finiva più». Pur di non sbadigliare, la giornata si può anche riempire di (belle) cose da fare. Ma ogni ritorno da un fine settimana o da una pausa – pasquale, natalizia o estiva – non tarda a lasciar affiorare lo stesso dramma: quando si sente che manca un motivo, una spinta, la promessa di un gusto nella fatica, quando cioè la malavoglia ti inchioda alla mancanza (o meglio all’inadeguatezza) del tuo dio. La faccia del lunedì, prima di qualsiasi discorso, svela sempre quale sia stata la domenica, e dunque quale sia il dio di ciascuno: in quel momento diventa chiaro che non esistono atei, è solo che c’è chi si è scelto un dio impotente, traditore, che ti lascia nella malavoglia, e c’è chi si gode invece un dio che vale, che «’n suo voler ne ’nvoglia» (Paradiso III), che ti accende di una «voglia pronta» (Purgatorio XIII). A tutti, il lunedì, tocca il primo passo: il punto è se si parte da un pieno o da un vuoto.
È il dramma che si consuma in quel tunnel lungo tutto il quarto e il quinto anno di liceo che è l’obbligo delle feste dei diciott’anni: che mostrano quel che sono la mattina dopo, quando si crolla sui banchi come larve. «Ecco è fuggito / il dì festivo, ed al festivo il giorno / volgar succede, e se ne porta il tempo / ogni umano accidente»: con parole semplicissime Leopardi fotografa il polverizzarsi della sera prima. Tranne il sonno e il mal di testa, cosa rimane? Troppo bella per essere vera, troppo effimera per continuare. E tutto il tragico si condensa qui: nel desiderio nascosto che il sabato non finisca, che la festa irrompa nell’ordinario della giornata successiva. Mentre in genere, la mattina dopo, «quasi orma non lascia».
Il sonno domina, quelle mattine. «Su, mortali, destatevi. Il dì rinasce: torna la verità in su la terra, e partonsene le immagini vane. Sorgete; ripigliatevi la soma della vita; riducetevi dal mondo falso nel vero». Il risveglio del Gallo silvestre leopardiano rimette di fronte alla fredda evidenza: «a tutti il risvegliarsi è un danno. Il misero non è prima desto, che egli ritorna nelle mani dell’infelicità sua. Dolcissima cosa è quel sonno».
A crogiolarsi nel sonno, però, non è chi è stanco. Tant’è che Pavese, in una raccolta intitolata Lavorare stanca, poteva scrivere che «l’uomo solo vorrebbe soltanto dormire»: «l’uomo solo», non l’uomo stanco. Cioè l’uomo che all’alba ha davanti l’amara prospettiva di «un giorno / in cui nulla accadrà», come pensa ancora ’Ntoni Malavoglia: «quella era una vera galera, dal lunedì al sabato, ed egli era stanco di rompersi l’anima per niente, perché quando non si ha nulla è inutile arrabbattarsi da mattina a sera, e non trovate un cane che vi voglia, per questo egli ne aveva le tasche piene di quella vita; preferiva piuttosto di non far niente davvero, e starsene in letto a fare il malato».
Vince la malavoglia solo chi ha trovato qualcuno che lo voglia, che gli «rubi il sonno e la solitudine», come racconta una struggente canzone brasiliana, Escravo de alegria: «Vou dormir querendo despertar pra depois de novo conviver com essa luz que vejo me habitar». Chi è voluto va a dormire non vedendo l’ora di risvegliarsi, per poter di nuovo convivere con questa luce che vede abitare in sé: per poter risentire la promessa del lunedì.
Ecco perché «l’unica gioia al mondo è cominciare». “Non è vero”, obiettò una mia alunna a Pavese, “non è l’unica gioia”. In realtà, a guardare la malavoglia stampata negli occhi di tanti lunedì, se non è proprio unica, è senz’altro molto rara. Però ha sicuramente ragione Pavese quando subito dopo precisa che «è bello vivere perché vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante». Magari poter ricominciare «ad ogni istante»! Per i (miei) bambini è così: ricominciano sempre. Per loro «ogni istante» è l’alba del lunedì. Ma forse per loro è sempre lunedì perché la vita è una cosa che viene, più che una cosa che va. Il senso di marcia è invertito: il «dì di festa» non è il fine settimana, ma il vero inizio: l’inizio e la sostanza, festosa, di tutto. Direi che per loro la domenica è il lunedì: «initium ut esset creatus est homo».
Forse questa assurda ripugnanza per l’inizio ci viene dall’essere malati di week-end. Me lo ha fatto intuire Benedetto XVI in uno dei suoi ultimi incontri, il 14 febbraio scorso: «è un peccato che oggi si sia trasformata la domenica in fine settimana, mentre è la prima giornata, è l’inizio». Anche per lui sembrava proprio un inizio, come proclamerà in eterno il suo sorriso lieto mentre si chiudeva la finestra di Castel Gandolfo. O come una primavera, non più interpretata come il finale di un anno scolastico, ma come l’inizio che ci viene a chiamare (25 marzo, Annunciazione).
Non c’è alternativa, per noi: scoprirci voluti al punto da ricominciare, innamorati della vita, o tapparci il naso, continuamente a caccia di una porta di servizio per scappare. Perché gli uomini saranno sempre divisi in due categorie: quelli in apnea che sbavano affinché arrivi il fine settimana, e quelli voluti, che non vedono l’ora che arrivi, prestissimo, il lunedì.