Di papa Francesco si è sottolineata molto la vicinanza al santo d’Assisi sia per la scelta inusitata del nome, sia per la semplicità e immediatezza nei rapporti, sia per la volontà di restaurare la Chiesa. Poco si è detto sulla sua appartenenza alla Compagnia di Gesù – fondata nel 1540 dall’ex militare Ignazio di Loyola – tanto amata, odiata, criticata, chiacchierata eppure così inesorabilmente presente nella vita della Chiesa di questi ultimi secoli.



Per me, che ho avuto la grazia di vivere a Città del Messico, antica capitale del vicereame della Nuova Spagna, le tracce della prima Compagnia di Gesù – quella del 1540 e poi soppressa nel 1773 – sono solo evidenze architettoniche: l’ex Colegio Máximo de San Pedro y San Pablo, quello di San Idelfonso e la chiesa della Profesa, mentre a nord della capitale, a Tepotzotlan, l’ex Colegio de San Francisco Javier – oggi adibito a Museo del Virreinato – la cui chiesa conserva ancora intatti i magnifici retablos di Higinio Chávez e le opere pittoriche di Miguel Cabrera, il pittore oaxaqueño del 700. Per quanto riguarda la vita della Compagnia contemporanea – ricostituita nel 1814 – il cuore gesuita della metropoli messicana pulsa nella colonia Roma, nella chiesa della Sacra Famiglia, dove si venerano le reliquie del beato Miguel Agustín Pro, il sacerdote della Compagnia fatto assassinare dal presidente Plutarco Elías Calles nel 1927, al tempo della Cristiada.



L’esistenza di collegi e di martiri esprimono già molto dello spirito della Compagnia: la rievangelizzazione della società attraverso l’educazione e la missione, che tante volte terminava con il sacrificio supremo della vita.

Quando il gesuita papa Francesco disse di sé “di essere venuto dalla fine del mondo” ha ricordato la sua Argentina al limite del mondo abitato, prossima – nella sua estensione – alla desolate lande antartiche; eppure dietro quelle parole ho scorto anche il gesuita che parte per terre inesplorate perché genti sconosciute possano conoscere Cristo.

La storia americana è una miniera di vicende di questo genere: come non ricordare le vicende rievocate nel film Mission con Robert De Niro? Talvolta penso che le vicende storiche dei Gesuiti siano il paradigma della missione cristiana: nulla è scontato in essa, Cristo va portato agli estremi confini dell’ecumene a prescindere dalle nostre paure, dalle incomprensioni e dai fallimenti.



Ma chi è il gesuita? Così lo definisce lo storico messicano Miguel Messmacher: «Il gesuita è un camminatore infaticabile e un missionario altruista. Personaggio scarno, capace di imporsi una disciplina quasi inumana, si presenta anche come un attore prepotente, ben radicato nel suo credo». Solo così riesco a spiegarmi la presenza della Compagnia in terre inospitali; quell’ansia di battezzare, di far entrare nel corpo mistico di Cristo, migliaia di infedeli che tante critiche ha suscitato presso i cristiani adulti – anche gesuiti – non è forse il primato della grazia sull’agire dell’uomo?

Uno delle esperienze missionarie che più mi ha impressionato è quella dei gesuiti nella bassa California nel secolo XVIII: un’evangelizzazione umanamente impossibile, difficile e con un finale negativo. La bassa California, divisa fra i due stati della Baja California e Baja California Sur, appartiene oggi al Messico. I primi conquistadores pensavano fosse un’isola e la chiamarono così da Califia, la mitica regina delle Amazzoni: la mitologia antica e i racconti della cavalleria medievale erano lo sfondo nella perlustrazione del nuovo continente.

La Corona castigliana se ne interessò, perché l’estremità meridionale della California costituiva la prima tappa del lungo tornaviaje del nao de China che da Manila, nelle Filippine, approdava infine ad Acapulco: si iniziò la conquista nel 1532, ma l’ingresso definitivo si realizzò solo nel 1697 e a spese dei Gesuiti.

Però come spiegare questo continuo intreccio fra conquista ed evangelizzazione nei domini castigliani? Il fondamento giuridico del dominio della Corona di Castiglia sulle Indie Occidentali (così si chiamavano le Americhe) si basava sulle cosiddette bolle alessandrine con cui papa Alessandro VI, nel 1493, aveva investito i Re cattolici delle terre scoperte e da scorpirsi chiedendo come contropartita l’evangelizzazione dei gentili. Ma, purtroppo, ogni tentativo di conquistare “l’isola” della California fallì; la terra era scarsamente abitata, desertica e inospitale, al punto che nel 1686, dopo l’ultimo fallimento in cui protagonista era stato il padre Eusebio Francesco Kino (il gesuita trentino, nato a Segno nel 1645), il re Carlo II sospese indefinitamente l’impresa.

Tuttavia il padre Kino non rinunciò al progetto. Ma perché intestardirsi per una terra inospitale, per occupare la quale nemmeno la Real Hacienda era più disposta a spendere un solo peso? Penso che qui si manifesti il profondo spirito missionario gesuita: proprio nelle terre dove la missione era finanziata dalla Corona e questa – nel caso particolare della California − vi aveva rinunciato, il gesuita non “mollava”, voleva andare fino in fondo. Ostinazione? Non è sufficiente nelle terre desolate, deve esserci per forza un’ideale più grande, un amore più grande! Penso che l’amore a Cristo e il fascino per la ricerca della verità che animava i Collegi gesuiti siano il vero motore di queste pazze imprese.

Ma chi andò in California non fu padre Kino, bensì il padre spagnolo-milanese Juan Marìa de Salvatierra y Visconti (1648-1717) che nel 1697 fondò la missione di Nuestra Señora de Loreto Conchò. Le missioni fondate dalla Compagnia furono 17: l’ultima, Santa Maria de los Angeles, nel 1767 (da non confondersi con la città di Los Angeles, che è una fondazione francescana dell’alta California).

Le missioni californiane, estremamente povere, non erano in grado di autofinanziarsi, perciò vi provvedevano da una parte le ricche missioni della Pimerìa Alta nell’odierno stato dell’Arizona (dove si trovava il padre Kino), perché i pima con l’aiuto dei gesuiti vi avevano sviluppato l’allevamento del bestiame; dall’altra il Fondo Piadoso de las Californias istituito col contributo di possidenti di Città del Messico, di Santiago de Queretaro e di Acapulco.

Chi erano gli abitanti della bassa California? Si trattava di cacciatori e collettori in una terra povera d’acqua e di risorse naturali, che vivevano in tribù isolate le une dalle altre e totalmente rispetto ai restanti indigeni dell’alta California o della contracosta del mar di Cortés (le coste degli attuali stati messicani di Sonora e Sinaloa sul golfo di California). Tuttavia si trovavano alcune nicchie con ecosistemi più favorevoli all’occupazione umana, di alcuni di questi si servirono i religiosi per le loro missioni.

Il gesuita è essenzialmente un militare: la sua giornata è totalmente organizzata, nulla è lasciato al caso. Si tratta di uomini che sono coscienti di avere una missione civilizzatrice: devono fondare delle reducciones, cioè ridurre a popolo, quindi con una vita stabile e ordinata, chi popolo ancora non è a causa della sua dispersione e del suo nomadismo. Solo così possiamo capire le parole dell’alsaziano padre Johann Jakob Baegert (1717-1772) che scrivendo dei californiani così si esprime: «I californiani per nessuna cosa hanno un’ora fissa. Mangiano quando hanno qualcosa da mangiare e quando hanno appettito, cosa che raramente gli manca. […] Di notte, dopo essersi riempita la pancia, si adagiano o si riuniscono seduti per parlare fino a stancarsi di tanto parlare. […] Si mangiava in mezzo a interminabili chiacchiere […] parlando di cose infantili od oscene».

La presenza dei gesuiti comportò un cambiamento radicale: le differenti rancherias dovevano trovarsi mensilmente alla missione dove rimanevano per alcuni giorni in cui il loro stile di vita mutava radicalmente. I missionari davano loro da mangiare, però li occupavano anche con lavori, catechesi, vita liturgica e sacramentale. Una volta congedati, gli indigeni ritornavano alla loro vita nomade. Per non sprecare tutto il lavoro di evangelizzazione i padri si facevano aiutare da catechisti ausiliari – i temastianes (coloro che insegnano alla gente) − appartenenti alle tribù stesse, che si incaricavano della recita del rosario o della ripetizione del catechismo durante i periodi di vita nomade.

Il passaggio fra due stili di vita così contrapposti non poteva che essere traumatico. Non solo, l’inevitabile contatto con altre popolazioni stava portando al crollo del loro sistema di vita e di questo si accorsero gli indigeni, al punto che nell’estremo sud le rancherías pericúes e guaycuras insorsero dal 1º ottobre 1734 massacrando padre Lorenzo Carranco e altri gesuiti, i militari del presidio e gli altri indigeni della contracosta. La ribellione fu domata solo l’anno seguente: i sopravvissuti chiedevano di essere uccisi, segno di un’incomprensione radicale fra i due sistemi di vita.

La popolazione indigena passò da 41.500 abitanti nel 1697, ai 7.149 del 1768: la diminuzione drastica dei membri di queste tribù fu dovuta alle limitate difese immunitarie che non seppero reggere al vaiolo, al morbillo, alla dissenteria, al paludismo, alle febbri tifoidee e infine alla sifílide, particolarmente diffusa nella regione de Los Cabos, per il contatto con i marinai del nao de China.

Nel 1767, il re Carlo III espulse la Compagnia dai suoi domini e da un giorno all’altro i religiosi dovettero abbandonare tutto: la notizia impiegò un anno a giungere nella bassa California, qui i gesuiti se ne andarono il 3 febbraio 1768. In tutte le missioni settentrionali della Nuova Spagna furono sostiuiti dai frati francescani che ne continueranno l’opera di evangelizzazione e saranno all’origine di diverse missioni nell’alta California (quella degli Usa), quali San Diego, San Francisco, Los Angeles.

Umanamente parlando è la storia di un fallimento! Per la cronaca sembra che l’unica cosa positiva ottenuta sia il riconoscimento da parte del padre Francesco Eusebio Kino − tra il 1701 e il 1702 − della peninsularità della California e non della sua insularità, quando scoprì le foci dei fiumi Colorado e Gila nel Golfo di California.

Non vi sono ragioni economiche o politiche nell’impresa della Compagnia, si poteva entrare in California animati dalle migliori intenzioni, pieni di illusioni, ma la realtà si sarebbe manifestata assai presto. Perché allora restare? Perché affrontare un massacro come quello del 1734-35, in cui gli assassini erano gli stessi cristiani locali?

La missione della bassa California non è una storia lieto fine, ma lascia molte ferite aperte: il dramma degli indigeni che in poco tempo si trovano catapultati in uno stile di vita a loro totalmente alieno; il dramma dei missionari che dopo avervi speso la loro vita dovettero andarsene da un giorno all’altro, senza vedere i frutti del loro lavoro.

Ma se la Compagnia non fosse entrata, sarebbe andata meglio ai californiani? È assurdo pensare che sarebbero potuti rimanere chiusi nel loro mondo. La storia degli uomini è fatta di incontri, di scontri, di migrazioni, di abbracci e di incomprensioni: le terre del mito in cui tutto funziona alla perfezione non fanno parte della vita reale. Allora qual è il ruolo dei cristiani in tutto questo? Ritirarsi sdegnosamente per non partecipare di possibili errori? Oppure correre il rischio di sbagliare, sporcarsi, perché un’altro uomo possa – pur nella drammaticità della sua vita − incontrare un significato a quello che si vive?

L’invito di papa Francesco di andare verso gli ultimi penso che vada proprio in questa direzione: gli ultimi possono essere coloro che vivono dall’altra parte del mondo o coloro che hanno perso tutto socialmente o economicamente, ma ultimi possono essere anche coloro che celano ferite affettive, psicologiche, morali che rendono la loro vita un inferno, anche se apparentemente tutto sembra perfetto. Solo per questi mendicanti, solo per chi è indegno, solo per chi ha sete di qualcosa che non riesce ancora a identificare, solo per costoro vale la pena sporcarsi fino in California.