Ognuno è libero di votare come crede. Le dichiarazioni di voto al governo Letta di lunedì pomeriggio nell’aula di Montecitorio hanno espresso, più o meno, le motivazioni per le quali si consente o si dissente.

Ma poco dopo le 17 di lunedì l’on. Colletti del M5S ha travalicato questo diritto limitandolo, con arroganza,  a toni ingiuriosi e a calunnie verso il presidente del Consiglio Letta, Alfano, Giulio Andreotti, Gianni Letta, Comunione e liberazione, Compagnia delle Opere: dal losco affarismo alle collusioni mafiose ce n’è stato per tutti. Naturalmente il no al nascente governo è stata logica conseguenza di tutto ciò. Ma una riflessione si impone.



Vi è un modo di dire “no” che ha, apparentemente, qualcosa di irrazionale. Richiama l’atteggiamento del bambino che non può esibire le ragioni del suo rifiuto e ritiene che persistere nel suo atteggiamento dimostri, all’adulto, la sua forza. Specie quando questo “no” si esprime con un linguaggio verbalmente violento, intollerante, ricorrendo magari a epiteti di cui s’ignora il significato.



Che si tratti di comportamenti additati come ricorrenti nei bambini, proprio perché bambini, è cosa nota a tutta la psicologia dell’età evolutiva. E ciò non desta grave preoccupazione. Al contrario, desta preoccupazione il ripetersi di tali atteggiamenti se descrivono modalità comunicative di soggetti adulti. Specie se essi pretendono una rappresentanza politica ed un consenso sociale che conferisca loro legittimità. Tale legittimità viene oggi confermata dal consenso quantitativamente rilevante e mediaticamente amplificato.

I numeri risultanti dal consenso elettorale ottenuto dal M5S non esprimono tuttavia una realtà omogenea e stabililmente coesa. Non solo i risultati delle elezioni in Friuli Venezia Giulia confermano ciò, ma lo stesso dualismo piazza/parlamento esprime una equivocità rispetto al metodo che la procedura di un dialogo costruttivo esige, pur tra soggettività fortemente distinte, all’interno di una democrazia compiuta.



La dimensione “movimentista” suscitata ed alimentata da Grillo e Casaleggio non può esonerare l’M5S dal mettere alla prova, pur nel ruolo dell’opposizione, la propria aspirazione ad una credibilità politica. Non può invece esprimersi, tale dimensione, ricorrendo ad attacchi pretestuosi all’identità dell’interlocutore. Demonizzare l’avversario rischia di inferocire quanti, magari ingenuamente, credono poi, perché riescono a sparare, di diventare eroi. Chi ama troppo tirare il sasso, non può poi nascondere la propria mano.

Ma questo tsunami verbale che a tratti sembra sradicare le fondamenta del tessuto civile e di tutti gli assetti che lo esprimono e lo garantiscono, lascia trasparire un fondamento inquietante. A ben vedere vi è al fondo una traslazione di categorie che bene ha identificato Albert Camus in uno dei suoi testi più “filosofici” che è L’homme revolté (L’uomo in rivolta) scritto nel 1951. 

Alla fine del primo capitolo egli scrive: “In quella che è la nostra prova quotidiana, la rivolta svolge la stessa funzione del “cogito” nell’ordine del pensiero: è la prima evidenza. Ma questa evidenza trae l’individuo dalla sua solitudine. (…) Mi rivolto, dunque siamo”. (A. Camus, L’uomo in rivolta, tr. it. 1972, p. 30-31)

Se al cogito cartesiano l’uomo è debitore della propria esistenza, è all’atto del rivoltarsi che si deve quello che siamo. È un atto di volontà pura che fonda il nostro esserci storico. Più che di “volontà di potenza”, si tratta di “volontarismo tragico” il cui approdo nichilista sembra giustificare le forme e i linguaggi irrazionali che esprimono la protesta nei molteplici aspetti degli Indignados di oggi.

Se tutto ciò corrisponda ad una strategia politica non è dato saperlo, ma possiamo anche supporlo.

Certo è che chi ha espresso il proprio consenso in una certa direzione e lo ha fatto “per protesta” contro le piccole e grandi ingiustizie che hanno umiliato il Paese, e chi in esso continua ad aspettarsi qualcosa, sta iniziando lentamente a capire che forse quel sogno di tanti è già stato tradito.