Il concetto di “età costantiniana” è la formula politico-culturale con cui si esprime il susseguirsi delle epoche dell’alleanza tra trono e altare e la tendenziale identificazione tra società e chiesa, che vede Costantino come il capostipite di una concezione di potere che procede ininterrotta fino all’assolutismo secentesco e da cui solo la Rivoluzione francese sul piano politico e il Concilio Vaticano II sul piano religioso ci avrebbe liberati.



Ma questa non è la posizione di Costantino, perché “quando sancì la pace religiosa Costantino scelse il Dio cristiano come protettore dell’impero e garante della coesione sociale. Non volle sottomettergli a forza gli altri culti e fedi perché pensava che nella concordia e nel tempo tutti si sarebbero convinti della sua verità”, osserva Massimo Guidetti in un’opera appena apparsa e significativamente intitolata Costantino e il suo secolo. L’«editto di Milano» e le religioni (Jaca Book, 2013).



Il giudizio non deve apparirci sorprendente perché conferma quanto aveva già incisivamente rilevato Paul Veyne in un libro del 2008, Quando l’Europa è diventata cristiana (312-394). Costantino, la conversione, l’impero (Garzanti): “ancora dopo il 380, sotto i successori di Costantino, sarà possibile distinguere tra la fede personale degli imperatori e il loro intervento come sovrani che regnano contemporaneamente su pagani e cristiani”, descrivendo poi la politica religiosa di Costantino con questo incipit: Nessun totalitarismo.

E così in un recente articolo sul Corriere anche Paolo Mieli presentava il libro di Guidetti (insieme con altri testi apparsi in occasione dei 1700 anni dalla proclamazione dell’Editto di Milano) col titolo Costantino non fu il padre dell’intolleranza religiosa



Tutto chiaro dunque? Non ci sembra proprio: infatti dietro il riconoscimento che Costantino cercava fondamentalmente la pace religiosa dell’impero si riaffaccia la querelle sulla sincerità o politicità della sua conversione, come quando Mieli riprende favorevolmente alcuni studiosi che di Costantino affermano: “Era un politico e ragionava solamente da politico”.

In realtà come nota Veyne “la sincerità di Costantino è fuori discussione” e, come osserva Guidetti, gran parte della vecchia e ormai superata discussione storiografica sulla politicità della sua scelta religiosa “sarebbe risultata incomprensibile al diretto interessato, per il quale la domanda sulla ‘autenticità’ della sua conversione non era rispondibile. Essa presuppone una separazione tra politica e religione e un’interiorizzazione dell’esperienza di fede assenti da quel contesto: Costantino era romano ed era imperatore, agire religiosamente significava prendere decisioni politiche poiché non poteva darsi politica senza la benevolenza di un dio e solo la pax deorum poteva dare fondamento alla vita associata”.

Ecco la difficoltà ad avvicinarci al vero Costantino: noi tendiamo ad applicare categorie anacronistiche alla sua figura e perciò tendiamo a ridurlo alla nostra misura, invece di cogliere la specificità e l’originalità della sua concezione ed opera.

È qui che diventa prezioso il suddetto libro di Guidetti, che permette di cogliere la specificità dell’epoca in cui visse Costantino e di comprendere per così dire dall’interno le preoccupazioni ed il senso con cui il grande imperatore romano, che riunificò, manu militari,  Oriente ed Occidente dopo la crisi della Tetrarchia, diresse la complessa realtà sociale e religiosa dell’impero con abilità ed intelligenza fino alla morte.

È soprattutto sul confronto tra la politica religiosa costantiniana, la tradizione imperiale e la dinamica delle tre “grandi tradizioni religiose antiche, i cui fedeli vivevano frammisti tutt’attorno al  Mediterraneo, nelle città e nelle campagne dell’impero” (i pagani, gli ebrei e i cristiani) che il testo è illuminante; infatti abbandona l’idea che sia sufficiente spiegare i percorsi delle tre religioni secondo un paradigma “teologico-separatista”, basato sulla chiarificazione delle differenze dei principi e sull’illustrazione della dinamica oppositiva tra i diversi gruppi religiosi perché fondati su teologie inconciliabili.

Da buono storico invece Guidetti si interessa in primo luogo al vissuto degli uomini del periodo e presenta “la dinamica del nucleo proprio di ognuna delle fedi e della loro trasformazione nell’arco del secolo, nel confronto sempre serrato con un’azione politica e legislativa che si propose di governarle e definirle. Poiché i reciproci scambi furono molto fitti, più di quanto si ritiene normalmente, in ognuno dei capitoli si troveranno intrecciati anche dati relativi alle altre due  appartenenze religiose, come se ognuna si specchiasse nelle altre e proprio questo gioco di rifrazioni ne consentisse una migliore comprensione”.

Il presupposto di questa ricerca è poi il superamento dell’altro equivoco che grava ancor oggi sulla figura di Costantino, che non ha semplicemente affermato una generica tolleranza religiosa per tutte le fedi, ma ha introdotto (nel rescritto applicativo del cosiddetto Editto di Milano) il “germe” del principio della libertà religiosa perché “il diritto della divinità ad essere adorata come vuole fonda la libertà di tutti a praticare il proprio culto e la propria fede religiosa secondo coscienza” (Marta Sordi) (cfr. tutto il capitolo L’accordo di Milano e i sorprendenti sviluppi della scelta costantiniana).

Emerge poi bene che la svolta personale ed istituzionale operata da Costantino sul piano religioso innesca nello stesso imperatore un dinamismo operativo che spesso prenderà in contropiede la comunità cristiana.

Colui che si considera “il vescovo di quelli di fuori” si sente infatti chiamato a “governare” la religione cristiana, in particolare a comporre i contrasti reciproci tra le chiese e a garantire l’unità della fede (esemplare il ruolo svolto nella convocazione e “gestione” del concilio di Nicea), anche se giustamente Guidetti osserva che non si ritenne mai tanto al di sopra dei vescovi  da considerarli “semplici esecutori della propria volontà; la loro autorità era originaria, non dipendeva dal rapporto imperiale”.

Come si vede anche per quanto riguarda il successivo cesaropapismo dell’impero bizantino, esso non può essere tutto ricondotto a Costantino.

Vero è che già con Eusebio si affermerà una lettura di Costantino come speculum principis (è da questa idealizzazione di Costantino come campione della fede che nascono poi tutte le “leggende” su Costantino, come quella della conversione tramite papa Silvestro, da cui prenderà ispirazione il famoso falso della Donazione), ma, come nota Guidetti, in realtà già “nei decenni che portano alla conclusione del (suo) secolo il progetto costantiniano è tramontato” perché le scelte di Graziano e di Teodosio, sotto la spinta di Ambrogio, conducono l’impero ad imporre come unica forma di professione di fede per tutti i sudditi quella nicena, mentre l’imperatore è ricondotto intra ecclesiam, soggetto all’autorità del vescovo in quanto battezzato (vedi l’episodio della penitenza inflitta da Ambrogio a Teodosio) e la Chiesa riacquista una piena libertà dal potere politico nella definizione dei rapporti tra le chiese e nell’elaborazione della propria dottrina.

Mentre si afferma la libertà della Chiesa sulla politica, la libertà religiosa diviene così un “inizio mancato” (Scola), che riemergerà solo dopo un lungo travaglio culturale.

Cosa rimane allora dell’età costantiniana?  A nostro avviso rimane un’epoca caratterizzata dal dinamismo del confronto tra tre grandi “famiglie spirituali” basato sul “libero mercato dell’offerta religiosa” e che mostra come nell’arco di poche generazioni i pagani si siano “lasciati travolgere” (Mieli) dal cristianesimo.

Certamente questo è dipeso dalla fervida testimonianza di fede delle comunità cristiane e dei grandi pastori e teologi del IV secolo, ma l’apporto dato da Costantino con l’affermazione della libertà religiosa rimane decisivo sul piano storico, come notava già all’epoca del Concilio Jean Daniélou: “l’estensione del cristianesimo a un immenso popolo, che rientra nella sua essenza, è stata ostacolata durante i primi secoli dal fatto che andava sviluppandosi all’interno di una società i cui quadri sociali e le cui strutture culturali gli erano ostili. L’appartenenza al cristianesimo richiedeva quindi una forza di carattere di cui la maggior parte degli uomini è incapace. La conversione di Costantino, eliminando questi ostacoli, ha reso l’Evangelo accessibile ai poveri, cioè proprio a quelli che non fanno parte delle «élites», all’uomo della strada. Lungi dal falsare il cristianesimo, gli ha permesso di perfezionarsi nella sua natura di popolo” (La preghiera come problema politico, Marietti, 1968).