Il 25 febbraio 395 Ambrogio vescovo celebrò a Milano in suffragio dell’imperatore Teodosio. Erano passati quasi 60 anni dalla morte di Costantino (337) e la sua dinastia aveva da tempo ceduto il passo ad altre famiglie imperiali. Ma era soprattutto la vicinanza tra l’Impero e la Chiesa con lui inauguratasi ad aver mostrato tutte le sue criticità nei decenni successivi, fino all’avvento di Giuliano l’Apostata: in quegli anni, infatti, si era rivista un’ingerenza del potere imperiale nella vita della Chiesa fatta di imposizioni e soprusi, che personalità del calibro di S. Ilario di Poitiers non avevano esitato ad accostare alle persecuzioni precedenti l’editto di Milano.



La fine della dinastia costantiniana, Giuliano l’Apostata e il suo tentativo di restaurazione pagana, l’affacciarsi con Valentiniano I di una nuova dinastia cristiana, la fine della controversia ariana, i numerosi episodi vissuti proprio da Ambrogio – con alterna fortuna – nel rapporto con gli imperatori e la corte, avevano molto complicato il quadro della relazione tra la Chiesa e l’impero.



Nonostante questi rivolgimenti della storia, la presenza di Costantino nel discorso di Ambrogio – che costituisce una specie di summa del suo pensiero teologico-politico – ha un peso assai importante.

Costantino compare quando Ambrogio descrive, cristianizzandolo, quello che nello schema consueto dell’elogio funebre imperiale era il momento dell’arrivo del sovrano defunto nel mondo divino. A Teodosio, infatti, viene chiesto – come ad ogni uomo – se ha amato il suo Signore e Dio e, conseguentemente, il suo prossimo (dai nemici ai parenti). Solo dopo la sua risposta affermativa, egli ha finalmente accesso al luogo in cui vi sono lux perpetua e tranquillitas diuturna per ottenere la ricompensa divina.



Proprio in questo luogo avviene l’incontro di Teodosio con Costantino. Un incontro che Ambrogio colloca dopo l’incontro con Graziano – predecessore di Teodosio ucciso tragicamente, cristiano convinto, amico di Ambrogio –, con i figli morti in tenera età, con la moglie, con il padre ucciso perché caduto in disgrazia. Scrive Ambrogio che Teodosio “ora si sente veramente re, poiché non si separa da Costantino. E sebbene a costui la grazia del battesimo abbia rimesso tutti i peccati solo in punto di morte, tuttavia, siccome fu il primo imperatore a credere e lasciò dopo di sé ai suoi successori l’eredità della fede, ottenne un posto degno dell’insigne suo merito”. 

Il giudizio di Ambrogio su Costantino è quindi abbastanza asciutto: il suo principale merito non sta nella condotta personale di vita (ricevette infatti il battesimo solo in punto di morte, e la sua vita fu costellata di tragici episodi, tra cui la condanna a morte della moglie Fausta e del figlio Crispo), ma nell’essere stato il primo imperatore ad aver creduto in Cristo e soprattutto ad aver permesso e favorito nei suoi successori la possibilità di aderire alla fede. 

Ciò, sottolinea Ambrogio, è merito particolare di Elena, sua madre, che – preoccupata per i pericoli cui il figlio andava incontro – cercò e trovò a Gerusalemme la Croce di Cristo, facendo forgiare i chiodi della Passione in un morso da cavallo e in una lamina incastonata in un elmo-diadema che mandò in dono al figlio. In questo modo, dalla Croce venne la redenzione degli imperatori, che si trovarono un esempio di esercizio del potere – quello di Cristo – coincidente con l’offerta della propria vita a servizio dei fratelli e all’esercizio della misericordia. 

Solo lasciandosi “frenare” e “istruire” dalla Croce di Cristo – afferma Ambrogio – chi governa può evitare di fare del proprio operato un irrazionale arbitrio che, mosso dalla brama del potere, cade inevitabilmente nella cieca passione; la storia ha infatti mostrato quanti imperatori si siano rivelati come “cavalli che nitriscono in preda alla libidine”, poiché non conoscevano – o non volevano riconoscere – Cristo. Come ha magistralmente dimostrato Marta Sordi – studiosa insigne di storia del Cristianesimo da pochi anni scomparsa – il significato del racconto del ritrovamento della Croce “è la redenzione dell’impero e degli imperatori. Il chiodo trasformato in corona diventa il chiodo dell’impero romano che regge l’intero mondo e non è insolentia, ma pietas”.

Pur condividendo pienamente questo giudizio, ritengo che si possa tentare di compiere un passo ulteriore nella comprensione del significato della figura di Costantino nel pensiero di Ambrogio. In lui, infatti, i temi della fede e della conversione non sono presenti unicamente in connessione con la tematica del potere imperiale, ma si estendono ad un ambito più ampio e capace di comprendere tutta la vita dell’uomo, offrendo una salvezza che non tralascia gli affetti familiari, fino a trovare il suo punto di approdo e compimento nel motivo dell’imitazione di Cristo. 

Ambrogio afferma infatti che Teodosio “sa di regnare, quando è nel regno del Signore Gesù e ne ammira il tempio”, e che “è davvero re” quando ritrova i figli, la moglie e il padre. Il ritrovamento della Croce da parte di Sant’Elena, poi, non ha come unico fine quello della salvezza dell’impero, ma diviene una sorta di “seconda risurrezione” di Cristo, intendendo con questa ardita espressione il fatto che nella vita dei Cristiani si riproponga la vita stessa di Cristo, rinvenibile in una rinnovata umanità ad imitazione della Sua. 

Quando parla di Cristo e della salvezza da Lui portata, dunque, Ambrogio non si limita mai a fredde considerazioni di tipo istituzionale, politico o moralistico, ma connota la salvezza di una tonalità sinceramente affettiva. Questo avviene tanto per Teodosio, come abbiamo detto, quanto per Costantino ed Elena, poiché è comunque l’ansia di una madre per la sorte del figlio ad essere indicata come causa prossima della ricerca delle reliquie della passione. Elena stessa viene detta “locandiera”, perché Ambrogio paragona il suo operato a quello dell’albergatore cui il Buon Samaritano affida l’uomo ferito dai briganti: una splendida immagine, questa, della Chiesa, preoccupata della salvezza non solo dell’impero romano, ma di tutta l’umanità.

Ambrogio stesso si “compromette” in questa visione, non temendo di manifestare apertamente il suo affetto e la sua amicizia per Teodosio e mostrandosi preoccupato per la salvezza anche degli imperatori che lo avevano avversato. Anche questi uomini di potere, infatti, sono chiamati da Dio a un cammino di rinnovamento della propria umanità il cui presupposto essenziale è la corretta conoscenza di Cristo, che solo la Chiesa può permettere e garantire. Possiamo allora riconoscere che la figura dell’imperatore non viene mai considerata come staccata dal suo destino personale, e dunque in chiave soteriologica. La “seconda risurrezione di Cristo” di cui Ambrogio parla esce dunque dall’ambito puramente teologico-politico (troppo angusto per essa!) e diventa invece il motivo di plauso per Costantino, il quale – benché abbia accolto tardivamente il Battesimo − ha reso possibile per i suoi successori un duplice cammino di rigenerazione personale e di testimonianza di un esercizio del potere in qualche modo “trasformato” a immagine della Croce.

Il giudizio di Ambrogio su Costantino, dunque, ha radici molto più ricche della volontà del vescovo di primeggiare nell’ambito politico. Se dunque ci possiamo legittimamente chiedere quanto di ciò che Ambrogio dice di Costantino corrisponda alla verità storico-biografica e quanto rifletta la sua rielaborazione personale, più difficilmente potremo ritenere corrette le nostre affermazioni, in assenza di un metodo di lettura storica nel quale venga pienamente riconosciuto il valore della fede e dello slancio pastorale di Ambrogio come criterio autentico di interpretazione del suo operato. Ma neanche in riferimento a Costantino dobbiamo escludere che la fede possa realmente essere stata un motore ideale – dagli effetti assai concreti – per la sua vicenda di uomo e di reggitore dell’impero.

Vorrei concludere con una citazione dello storico francese (di scuola marxista!) Paul Veyne, che ritengo si possa applicare – con i dovuti aggiustamenti – anche allo stesso Ambrogio: “Non si può continuare ad avere una visione così limitata di Costantino. Questo principe cristiano di eccezionale statura aveva concepito un vasto progetto, in cui non mancavano né devozione né potere: dare vita a un vasto insieme totalmente cristiano e che fosse, per questo, uno solo sul piano politico e religioso; questo ideale millenario dell’impero cristiano farà ancora sognare ai tempi di Dante. Costantino l’ha realizzato deliberatamente, mosso dalla devozione e non per interesse o distrattamente” (Paul Veyne, Quando l’Europa è diventata cristiana [312-394], Garzanti, 2010, p. 81). 

Sottoscrivo del tutto questa opinione, che riscatta Costantino (e, conseguentemente, Ambrogio) da letture troppo anguste ancora troppo diffuse.

Si può essere o meno d’accordo con la concezione politico-religiosa di Costantino o con quella di Ambrogio. Ma penso sia importante e necessario riconoscere che una lettura metodologicamente corretta dell’agire di simili uomini – capaci di segnare profondamente la loro storia – debba essere disponibile a riconoscere loro un animo e un cuore capaci di lasciarsi muovere a mete ideali con più generosità e realismo di quanto capita sovente a noi stessi.