Vivevo nella rassegnata convinzione che la stagione dei grandi uomini di cultura britannici, dello stampo di C.S. Lewis e J.R.R. Tolkien, si fosse irrimediabilmente esaurita. Quando però mi è capitato tra le mani il libro di un filosofo inglese, Roger Scruton, intitolato La cultura conta. Fede e sentimento in un mondo sotto assedio (Vita e Pensiero, 2011) sono stato costretto, di buon grado, a cambiare idea. Si trattava di un’appassionata difesa dei canoni della cultura occidentale, quasi un manifesto programmatico per tutte le persone di buona volontà interessate a custodire e tramandare «l’eredità letteraria, artistica e filosofica insegnata nelle facoltà umanistiche d’Europa e d’America, e che di recente (soprattutto in America) si è pensato di liquidare con disprezzo in quanto prodotto di “defunti maschi europei di razza bianca”». La difesa dell’alta cultura occidentale nelle sue diverse espressioni, ossia «l’insieme dei prodotti della creatività umana che hanno superato la prova del tempo, e sono cari a coloro che li apprezzano grazie al sapere emotivo e morale che contengono», occupa una posizione nodale nel pensiero di Scruton, in opposizione a quella “cultura del ripudio” sempre più diffusa in Occidente e in particolare nei Paesi anglosassoni.
Poniamo il caso – scriveva il Nostro in un articolo sull’idea di università – di un padre della classe media che decida di iscrivere la figlia all’università e si disponga a spendere a questo fine una cifra considerevole, ritenendo che sia un buon investimento per il futuro: la figlia torna però a casa alcuni anni più tardi con una laurea in gender studies e con la medesima ignoranza dei classici che aveva quando ha messo piede all’università per la prima volta. Si è davvero trattato di un buon investimento, si chiede Scruton provocatoriamente? Se la nostra cultura, tacciata di essere etnocentrica, razzista e maschilista, non verrà più insegnata, quale futuro avrà la civiltà occidentale? Ciò è tanto più sorprendente se si pensa che la cultura europea si è sempre dimostrata «pronta ad assorbire e adattare felicemente le culture di altri luoghi, altre fedi e altre epoche», con una capacità unica di assimilare diverse tradizioni e quindi un non comune “multiculturalismo” innato.
L’ostilità e il risentimento nei confronti di un universo culturale avvertito come troppo collegato a valori, gerarchie e forme di ordine sociale del nostro passato ha portato a guardare con sospetto programmi scolastici e corsi di studio tradizionali, spesso sostituiti da programmi ritenuti più “rilevanti” e vicini agli interessi degli studenti. Di norma però questi programmi riveduti e corretti, oltre che orientati ideologicamente, sono inconsistenti dal punto di vista della trasmissione del sapere, mentre d’altra parte in passato – osserva Scruton con un tocco squisitamente british – «lo studio di materie “irrilevanti” come il greco, il latino e la storia antica ha permesso a un piccolo gruppo di laureati britannici di governare un impero planetario».
En passant, Scruton non risparmia una stoccata alla moda contemporanea della tecnologia dell’informazione, che avrebbe aumentato il sapere umano in ampiezza e accessibilità: «Semmai Internet ha dimostrato che la tecnologia dell’informazione è molto più efficace a diffondere ignoranza che a promuovere la scienza», aumentando a dismisura il “rumore”, da non confondere con il sapere, un tempo «estratto dai libri con sforzo e acquisito nel silenzio – perché il rumore con cui era in competizione veniva accuratamente filtrato dalle istituzioni educative incaricate di fornire un comune sistema di riferimento a coloro che le frequentavano».
Nell’ottica di Roger Scruton la cultura del ripudio va di pari passo con una sorta di “relativismo assolutista”, che dalle accademie tracima nei mezzi di informazione di massa fino a permeare di sé la società contemporanea: un concetto, insomma, che richiama da vicino la “dittatura del relativismo” denunciata a suo tempo da Benedetto XVI. In un saggio significativamente intitolato Impious Europe, il filosofo inglese osserva come l’esito del relativismo contemporaneo sia una nuova forma di dogma, tesa ad annichilire qualunque tipo di dissenso, soprattutto se motivato a partire da posizioni legate alla cultura cristiana. Affermazioni in controtendenza rispetto al nichilismo dominante vengono considerate impresentabili senza bisogno di discussione, ma solo perché inaccettabili, eretiche, rispetto al dogma relativista, che finisce per assumere connotati pseudo-religiosi.
Tra le conseguenze più evidenti e sciagurate del dogmatismo progressista vi è la “fuga dalla bellezza”, un ulteriore tema cardine della visione di Scruton, al quale è dedicato un altro dei suoi libri di recente edito in lingua italiana (La bellezza. Ragione ed esperienza estetica, Vita e Pensiero, 2011). Poiché «l’esperienza della bellezza ci spinge anche ad andare al di là di questo mondo, in un “regno di fini” in cui il nostro desiderio ardente di immortalità e di perfezione trova finalmente una risposta», essa diventa intollerabile per la cultura postmoderna, protesa in campo artistico verso un’originalità che diviene compiaciuta dissacrazione. Purtroppo le testimonianze di ciò si sprecano, anche, spiace dirlo, nel campo dell’arte a soggetto religioso (parlare di arte sacra a questo proposito sarebbe fuori luogo), che tante volte sembra iconoclasta e non meno nichilista di quella profana.
Scruton porta l’esempio di una rappresentazione berlinese de Il ratto dal serraglio nella quale la meravigliosa musica di Mozart strideva con una regia dai toni volutamente postribolari e grotteschi. A chi tra gli amanti dell’opera non è capitato di assistere a qualcosa di simile? «Ci troviamo davanti al desiderio di sciupare la bellezza, con atti di iconoclastia estetica»; dal momento che l’esperienza della bellezza è intimamente legata a quella del sacro, la sua profanazione si rende indispensabile. Tuttavia – ricorda Scruton in conclusione dell’articolo On defending Beauty – non è possibile umiliare la bellezza senza perdere di vista il senso della vita.
In questa prospettiva, l’apostasia contemporanea nei confronti della cultura e dell’arte va di pari passo con quella religiosa. Scruton, nato nel 1944 e cresciuto in una famiglia laica di sinistra, si è avvicinato da solo, nella giovinezza, alla Chiesa anglicana e ogni domenica suona l’organo nella sua parrocchia del Wiltshire, la tipica chiesa in stile neogotico della campagna inglese. Proprio al significato dell’anglicanesimo nella cultura inglese egli ha dedicato uno dei suoi ultimi libri, Our Church. Purtroppo, in un momento in cui le Chiese avrebbero dovuto svolgere un insostituibile compito di difesa della sacralità della bellezza, anch’esse hanno ceduto allo svilimento del proprio patrimonio rituale e simbolico: il “vandalismo” nei confronti della liturgia anglicana, infatti, va di pari passo con l’abbandono della tradizione liturgica della Chiesa cattolica. Nonostante ciò Scruton ha guardato con grande interesse e simpatia ai pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, vedendo in essi i segni di ripresa della più genuina tradizione religioso-culturale dell’Occidente.
A proposito dei processi di secolarizzazione contemporanei il filosofo inglese ha affermato nel corso di un’intervista: «Penso che le Chiese europee debbano trasmettere il messaggio che, senza di loro, l’Europa non esiste. Le nostre società sono creazioni cristiane, che dipendono su ogni singolo punto da una rivelazione che è stata mediata dalle Chiese […]. Affermarlo, vuol dire iniziare a riscoprire le cose per cui dobbiamo lottare e che dobbiamo difendere dalla corruzione».
«La nostra civiltà è stata sradicata – ma l’albero sradicato non è sempre detto che muoia». Nel momento attuale, la cultura diventa «la via maestra per conservare la nostra eredità morale e per restare saldi di fronte a un futuro burrascoso».