Per gentile concessione degli editori, pubblichiamo un brano tratto da Václav Havel, “Il potere dei senza potere”, prefazione di Marta Cartabia, La Casa di Matriona-Itaca, 2013 (Qui il commento di Giovanna Parravicini).
Questo discorso, si legge in calce al testo, «è indirizzato all’Università di Tolosa-Le Mirail, dove l’avrei pronunciato in occasione del conseguimento della laurea ad honorem, se avessi potuto prendervi parte». Il riconoscimento accademico venne conferito ad Havel il 17 agosto 1982 mentre si trovava ancora in carcere. Ne presentiamo un breve stralcio.
La politica e la coscienza – Da bambino ho vissuto per un certo tempo in campagna, e da allora mi è sempre rimasta nella memoria un’esperienza di quel periodo: andavo a scuola nel paesino vicino e, attraversando i campi, vedevo ogni giorno all’orizzonte la grande ciminiera di una fabbrica costruita alla meglio, che con tutta probabilità serviva per scopi militari. Da questa ciminiera usciva un denso fumo nerastro che si allargava nel cielo azzurro. Tutte le volte che lo vedevo provavo l’intensa sensazione che in quel fumo ci fosse qualcosa di profondamente sconveniente, poiché gli uomini insudiciavano il cielo. Non so se a quell’epoca esisteva già l’ecologia come disciplina scientifica e comunque non ne sapevo nulla, tuttavia ero istintivamente turbato e offeso da quell’«insudiciamento del cielo»; mi sembrava che l’uomo commettesse qualcosa di male, che distruggesse qualcosa di importante, che sconvolgesse arbitrariamente l’ordine naturale delle cose e che avrebbe dovuto pagare le conseguenze di questo comportamento. La mia ripugnanza era principalmente di ordine estetico: a quell’epoca non sospettavo minimamente il danno di quelle esalazioni che un giorno avrebbero fatto morire i boschi, sterminato gli animali e messo a repentaglio la vita degli uomini.
Se un uomo del Medioevo, andando, per esempio, a caccia, avesse visto qualcosa di simile, l’avrebbe certamente considerato opera del diavolo, sarebbe caduto in ginocchio e si sarebbe messo a pregare per la salvezza sua e del prossimo.
Che cos’hanno in comune il mondo dell’uomo medievale e quello di un ragazzino? Credo, una cosa fondamentale: entrambi sono radicati più fortemente della maggior parte degli uomini moderni in quello che i filosofi definiscono «mondo naturale» o «mondo della vita». Essi non sono ancora estranei al mondo della loro esperienza reale e personale; il mondo che ha un suo mattino e una sua sera, un «basso» (la terra) e un «alto» (il cielo), il mondo in cui il sole sorge ogni giorno a Oriente, attraversa il cielo e tramonta ad Occidente, un mondo in cui i concetti di dimora e di estraneità, di bene e di male, di bello e di brutto, di vicino e lontano, di dovere e di diritto significano ancora qualcosa di vivo e determinato; il mondo che conosce i confini fra ciò che ci è familiare e di cui dobbiamo prenderci cura e ciò che è oltre quell’orizzonte, davanti a cui dobbiamo solo umilmente inchinarci perché ha la natura del mistero.
Questo mondo naturale è il mondo che viene immediatamente percepito e personalmente garantito dal nostro «io»; è il mondo non ancora indifferente della nostra esperienza, a cui siamo personalmente legati dal nostro amore, dal nostro odio, dal rispetto, dal disprezzo, dalle tradizioni, dai nostri interessi e dalle sensazioni irriflesse che sono all’origine della cultura. È il terreno delle nostre gioie e dei nostri dolori irripetibili, incomunicabili e inalienabili; il mondo in cui, attraverso il quale e di cui siamo in qualche modo responsabili, il mondo della nostra responsabilità personale. Categorie come, per esempio, la giustizia, l’onore, il tradimento, l’amicizia, l’infedeltà, il coraggio o la compassione hanno in questo mondo un contenuto concreto, legato a uomini concreti e molto importante per la vita concreta; insomma hanno ancora un peso. Il fondamento di questo mondo è costituito da valori che esistono in certo qual modo da sempre, prima che se ne parli, che li sperimentiamo e ne facciamo oggetto delle nostre domande. Ciò che dà coerenza interna a questo mondo è una sorta di postulato «pre-speculativo», per cui esso funziona ed è possibile solo perché esiste qualcosa oltre il suo orizzonte, qualcosa al di là o che lo supera, qualcosa che, pur sfuggendo alla nostra comprensione e manipolazione, tuttavia proprio per questo offre a questo mondo un fondamento solido, un ordine e una misura; è la fonte nascosta di tutte le regole, i costumi, le prescrizioni, i divieti e le norme che in esso hanno valore vincolante. Il mondo naturale, allora, per la sua stessa essenza cela in sé un presupposto di assoluto che lo fonda e lo delimita, lo rianima e lo regge, senza del quale sarebbe impensabile, assurdo e inutile e che non possiamo far altro che rispettare in silenzio. Ogni tentativo di assoggettarlo, dominarlo o addirittura sostituirlo con qualcos’altro viene inteso, nelle dimensioni di questo mondo, come manifestazione di superbia che l’uomo deve sempre pagare duramente, così come hanno pagato Don Giovanni e Faust.
Una ciminiera che inquina il cielo non è solo, per me, un deplorevole lapsus della tecnica che non avrebbe tenuto conto del «fattore ambientale» e che può forse rimediare a questo suo errore con un filtro adeguato in grado di eliminare le sostanze tossiche dai fumi. È qualcosa di più: è il simbolo di un’epoca che cerca di valicare i confini del mondo naturale e le sue norme, e di fare di quel mondo una cosa del tutto privata, una questione di opinioni soggettive, di sentimenti, illusioni, pregiudizi e capricci privati «solo» del singolo individuo. Un’epoca che nega l’importanza dell’esperienza personale – inclusa quella del mistero e dell’assoluto – e che al posto dell’assoluto personalmente sperimentato come misura del mondo, pone un assoluto nuovo creato dagli uomini, non più misterioso, liberato dai «capricci» della soggettività e quindi impersonale e inumano, vale a dire l’assoluto della cosiddetta oggettività, della conoscenza razionale oggettiva, del progetto scientifico del mondo (…).