Il fenomeno letterario del momento è il fanta-romanzo di Timur Vermes, che in Germania ha già venduto più di 400mila copie e che in Italia sta per uscire da Bompiani sotto il titolo “Lui è tornato”. Il Venerdì di Repubblica ha segnalato il caso e molti lo commentano. Il libro immagina che Hitler non sia morto e ricompaia nella Berlino d’oggi. I tedeschi lo riconoscono, ma questa volta non lo prendono sul serio, ridono dei suoi discorsi e si divertono dei suoi gesti, scambiandolo per un attore comico intento a recitare una parte. E poiché i suoi strampalati concioni riscuotono molto successo, Hitler diventa presto una star della tv e poi del web e di You Tube. Così la popolarità fa rinascere in lui l’idea di ributtarsi in politica e fondare un partito. 



Come è immaginabile, il racconto solletica i nostri intellettuali a traslare l’idea ai casi nazionali. Lo storico Giovanni De Luna già immagina un Mussolini sfuggito alla fucilazione e, in successione, alleato della Dc, poi di Craxi, poi tycoon televisivo. Facile sarà per altri il paragone con Grillo, che avrebbe in comune col personaggio di Vermes il disinvolto approfittare dei nuovi media. E scommettiamo che non mancheranno pensierini per il Cavaliere, anch’egli occupatore delle piazze mediatiche. 



La tesi che il dittatore in potenza può diventarlo in atto grazie ai media sarà pure vera, ma certo non è originale. Da questo punto di vista forse il libro in prossima uscita ci potrà dire poco. Più interessante invece è la polemica sulla liceità dell’operazione. Nel libro si ride di Hitler ma, qualcuno ha detto, si corre il rischio di ridere con Hitler. Mi ha colpito che nel sito della Bbc dedicato al caso compaia una foto poco nota del Führer, ritratto in una posa rilassata e sorridente, come non ci si aspetterebbe da un mostro. 

In Germania il complesso di colpa è profondo. Fin dagli asili si insegnano gli orrori del nazismo. Ma la coscienza non è tranquilla. Nell’intervista concessa al Venerdì, l’autore afferma che resta irrisolta la domanda radicale: “come è potuto accadere?” “perché lo abbiamo seguito?”. È una questione vera. Vermes trae un ammonimento socio-politico sui rischi che corre ancora oggi la democrazia europea, là dove diventa scontata. E cita l’esempio della deriva ungherese. Il pericolo c’è, accresciuto dalla crisi economica. Ma forse la domanda merita una risposta più profonda, che c’entra col mistero del cuore dell’uomo che, come disse Giovanni Paolo II all’indomani del 11 settembre, “è un abisso”. 



C’è poi un altro aspetto, molto intrigante. Pur essendo un testo di evasione, nel suo intento morale il libro appartiene al filone della storia controfattuale, altrimenti detta ucronia o fantastoria. La storia ipotetica non narra i fatti accaduti, ma quelli che sarebbero potuti accadere se certi snodi fossero andati diversamente (What if ?). È una corrente sotterranea, ma viva. Il cinema la utilizza a piene mani, da “La vita è meravigliosa” a “Bastardi senza gloria”. Ma anche filosofia e letteratura. Già Pascal notava che se il naso di Cleopatra fosse stato più corto la storia sarebbe stata diversa. Charles Renouvier l’ha teorizzata, immaginando un’Europa senza il cristianesimo, dopo gli Antonini. Roger Callois mette in scena un Pilato che libera Gesù. E perfino Chesterton l’ha praticata, domandandosi cosa sarebbe successo se don Giovanni d’Austria avesse spostato Maria Stuarda. 

Ora, ha senso domandarsi del passato possibile? Dei mondi alternativi? Delle opzioni perdute? Anche singolarmente, questo volgersi indietro e spesso rovellarsi delle scelte compiute è quasi istintivo. Sliding doors. Ma è giusto? 

Qualcosa di utile c’è. Ci abitua a sfuggire al determinismo positivistico, sia per il singolo sia per i popoli. Rimette al suo posto la libertà. Perché, ricorda Musil, il cammino della storia non è quello di una palla di biliardo, ma è piuttosto simile al bighellonare di una nuvola. Ma a parte questa funzione critica (Renouvier appunto), è meglio di no, meglio abbracciare i fatti. In fondo un certo attardarsi al passato denuncia uno scetticismo, che cioè non ci sia un senso, seppur nascosto, all’accaduto. “Quello che è fatto è fatto” dice il Miguel Mañara di Milosz. “Non sono d’accordo” risponde Girolama. Lei aveva un fattore in più, il solo che cambia davvero ogni passato: il perdono.