Religion and the senses: “La religione e i sensi nell’Europa dei primi tempi moderni”. È l’invitante titolo di una raccolta di studi storici da poco pubblicata dall’editore Brill di Leiden, curata da Wietse de Boer, della Miami University di Oxford (Ohio), e da Christine Göttler, di Berna.

Il volume raccoglie una ricchissima documentazione sul cristianesimo come religione “sensibile”: un atteggiamento dell’uomo di fronte alla realtà che ha potuto prendere forma e tramandarsi solo legandosi all’efficacia dei segni, incidendo sulla carne della vita, rendendosi sperimentabile attraverso la vista, l’udito, il tatto, cioè raggiungendoci per mezzo di parole, di suoni, di immagini, di colori, di gesti in cui coinvolgersi. Il Dio che si era affacciato alla vita del mondo attraverso la profezia dello spirito ebraico ha dovuto, lui per primo, assumere la fisionomia di essere umano in tutto identico a noi, per stringere un vincolo di immedesimazione con chi era immerso nel flusso dell’esistenza e rendersi incontrabile fino all’ultimo istante del tempo.



Attraverso i sensi, l’infinito inesauribile di Dio si fa decifrabile e trascina in un dialogo che scavalca il baratro di una sproporzione totale. Diventa un Tu sulla cui spalla, come Giovanni, ci si può appoggiare con fiducia, l’invitato alla cena di cui Maria di Betania cosparge i piedi con “una libbra di olio profumato di vero nardo assai prezioso”, asciugandoli poi devotamente con i capelli, così come il Maestro, del resto, in un’altra cena ancora più memorabile avrebbe lavato i piedi ai discepoli e, donando loro il proprio corpo per sempre, avrebbe fondato il sacramento della presenza divina in mezzo alla storia degli uomini. A pensarci bene, anche il profumo intenso dell’incenso fatto bruciare davanti all’altare in segno di adorazione dell’eucaristia, con le sue nuvole di fumo che si sollevano fino alle volte delle chiese, è l’umile strumento usato da secoli per lasciar percepire il fascino del totalmente Altro da noi che si è piegato a piantare la sua tenda là dove l’uomo porta avanti la sua incerta avventura sulla terra.



Un altro esempio suggestivo di questa logica del segno materiale che si fa veicolo della grandezza del divino e la mette in rapporto con la povertà limitata della creatura disponibile a lasciarsi abbracciare è illustrato nel saggio di Rachel King che trova posto nel volume da cui siamo partiti: “The beads with wich we pray are made from it. Devotional ambers in early modern Italy (“I rosari con cui noi preghiamo sono fatti di questo”. L’uso devoto dell’ambra nell’Italia della prima età moderna).

L’articolo fa conoscere un aspetto curioso e apparentemente marginale della storia religiosa del nostro passato, che acquista però un significato cruciale all’interno di una volontà di comprensione delle sue strutture portanti. Vi si parla della grande popolarità delle corone del rosario fatte di ambra, che circolavano ampiamente in tutto il territorio italiano nei secoli della cosiddetta Controriforma. 



Le ragioni della scelta di questo materiale prezioso per confezionare i grani annodati nelle corone non erano di ordine puramente estetico. La resina cristallizzata dell’ambra è una sostanza che produce effetti registrabili quando viene manipolata. Facendo scorrere i grani delle corone tra le proprie mani, i devoti creavano uno stato di riscaldamento. E il riscaldamento faceva sprigionare dall’ambra un odore aromatico, che non poteva non colpire l’attenzione e il gusto dei fedeli che ne facevano uso per contare le avemarie della preghiera rivolta alla madre di Cristo.

Non è un particolare ridicolo: la ripercussione dell’atto della preghiera sul senso dell’olfatto teneva più desta l’attenzione. Risvegliava dalla tendenza a distrarsi. In un certo senso, evocava in modo oggettivamente tangibile una presenza estranea a cui si chiedeva di fare spazio. L’effetto era conosciuto e deliberatamente ricercato. Si sceglieva l’ambra proprio perché le sue risorse potessero essere sfruttate: anche il naso aveva la sua piccola parte da svolgere nell’accendere il sentimento di devozione soprattutto dei semplici illetterati.  A ciò si aggiungeva il fatto che l’ambra è capace per strofinio di elettrizzarsi, acquistando una carica che anche simbolicamente esercitava un’attrazione. Lo si sapeva dall’antichità, e difatti il nostro termine “elettricità” deriva dal nome greco dell’ambra (elektron). Questa virtù nascosta della pietra, una volta attivata, poteva facilmente assumere anche significati protettivi: diventava uno scudo a cui affidarsi per calamitare il bene. Esisteva anche un uso terapeutico dell’ambra, che scacciava i mali e attirava la fortuna. E difatti nei testi religiosi del XVI-XVII secolo, sia cattolici, sia protestanti, la cautela con cui si giudicava il valore dei segni protettivi non ha mancato di scivolare nella denuncia del vizio della superstizione che si insinuava nelle forme di pietà più rudimentali, inquinandole dall’interno.

Ma la critica severa dei riformatori intransigenti non poteva oscurare la sostanza da cui erano scaturiti non solo l’impiego della pietra in funzione di esaltazione mariana, ma la stessa invenzione tardomedievale (XV secolo) della preghiera del rosario, nel suo canonico impianto moderno dei tre cicli di quindici misteri intervallati dalle decine recitate in serie litanica. Il rosario era la forma semplificata e resa popolare della liturgia delle ore di chierici e monaci, incentrata sulla rilettura continua dei salmi della Bibbia. In primo luogo per chi non sapeva leggere o non poteva dedicare porzioni estese di tempo alla preghiera, il rosario riconduceva tutto all’essenziale. Era un solco in cui docilmente calarsi per essere aiutati a ripercorrere l’intero arco della vita di Cristo in rapporto a Maria, entrando nel nucleo centrale della storia di salvezza che l’incarnazione di Dio aveva spalancato davanti al destino dell’uomo redento. Si poteva diventare una cosa sola con questa storia prodigiosa solo tramite la lucida consapevolezza della propria memoria, animata e riempita di calore dal vivo affetto di un io riconoscente. 

I domenicani per primi diffusero questa nuova forma di preghiera orale in tutte le contrade dell’Europa cristiana. Per farla trionfare, non si inventarono solo le corone di grani da far scorrere contando il succedersi dei momenti che componevano l’intero atto di devozione. Si stamparono guide e manuali che ne insegnavano i contenuti. Artisti e incisori moltiplicarono in mille fogge le immagini delle scene dei misteri da interiorizzare: erano i punti nodali di passaggio di un itinerario mentale che dall’annunciazione dell’angelo andava fino alla glorificazione celeste di Maria, prototipo del destino di felicità di ogni uomo salvato da Cristo.

Arrivati al 1600, si sentì il bisogno di fare le cose sempre più in grande. Capitò che si arrivasse persino alla gigantesca impresa di tradurre il ciclo dei quindici misteri del rosario in un teatro pietrificato di edicole sacre, in cui il contenuto dei misteri era tradotto nella plastica evidenza di una sinfonia di pitture e sculture drammatizzate, che riproducevano “dal vivo” i fatti costitutivi della storia dell’alleanza di Dio con l’umanità sofferente. È quello che avvenne ritagliando sul fianco  della montagna il viale processionale di accesso al Sacro Monte di Varese, al tempo di Federico Borromeo. Tutto qui era reso visibile agli occhi di chi semplicemente guardava, procedendo passo dopo passo lungo una via che era un pellegrinaggio fino alle sorgenti della vita vera. E guardando, pregando, si tornava a essere protagonisti di fatti che continuavano a produrre i loro effetti coinvolgenti, colpendo la mente e il sentimento con la forza persuasiva dell’ostentazione resa enfaticamente monumentale.

La pietà cristiana riprendeva così a farsi esperienza di un viaggio, o di una conversione: dall’io isolato verso Dio, e ritorno, passando per i misteri della gioia, del dolore e della gloria, separati da archi sotto cui ancora oggi si deve con ordine transitare, salendo a zig zag fino a ciò da cui tutto ha tratto inizio e verso cui ogni cosa aspira.