Il tema dell’Europa non è più all’ordine del giorno, perché è nell’ordine delle beatitudini storiche e terrene. Non è più, insomma, quel punto sorgivo di nuova generazione, di cui ha scritto acutamente don Julián Carrón nel suo articolo su Repubblica dallo sparigliante titolo: “Anche in politica l’altro è un bene”. Vale la pena riprendere il pensiero di Carrón: “Che cosa permise ai padri dell’Europa di trovare la disponibilità a parlarsi, a costruire qualcosa insieme, perfino dopo la seconda guerra mondiale? La consapevolezza dell’impossibilità di eliminare l’avversario li rese meno presuntuosi, meno impermeabili al dialogo, coscienti del proprio bisogno; si cominciò a dare spazio alla possibilità di percepire l’altro, nella sua diversità, come una risorsa, un bene”. Un guadagno storico di incommensurabile valore. La fuoriuscita dalla deriva devastante della logica antagonista secca e violenta, affermata dall’esperienza dei totalitarismi del 900 e con alle spalle legittimazioni importanti, quale quella di Carl Schmitt.



La dialettica amico-nemico azzera la realtà e lascia gli uomini in un deserto senza speranza. La terra desolata di Eliot. Ma oggi cos’è l’Europa dei popoli se non questa terra desolata? E – rovesciando l’assunto di Carrón – dove sono andate a finire le tensioni generative e positive dei padri dell’Europa? Siamo su un altro terreno storico e il presente mostra, senza più veli, la distanza tra quell’ideale e la realizzazione del progetto europeo. Ma di ciò non si può parlare usando la ragionevolezza, che fu cara a personalità come Chesterton e Belloc, autore, quest’ultimo, di un grande saggio sull’Europa. L’Europa, cioè la Ue, appare davvero come quella realtà così prossima al disegno totalitario descritto dall’ex dissidente russo Vladimir Bukovskij, il quale, di fronte alla domanda di un malcapitato giornalista rispose: “Spiacente figliolo, ma non ho nulla di bello da dirle sull’Unione europea, se vuole possiamo parlare di altro: che ne dice del tempo?”.



Come dire: non c’è l’oggetto. Ma ci sono, di contro, i soggetti, ci sono le comunità concrete e organiche o che, almeno, cercano di continuare ad esser tali, e questi io in azione non colgono più la sostanza della grande verità affermata da Carrón: questo è un problema. E un problema è una mossa della realtà che si frappone tra la mia vita concreta e i miei desideri.

Non esiste più la realtà senza un soggetto che la desideri come avventura e come progetto per il presente e in vista del futuro. Se non è più presenza e si trasfigura in utopia meccanicistica. Su questo punto, la lezione di don Luigi Giussani sulla differenza radicale tra utopia e presenza non può che tornare utile. Ancora Bukovskji: “Come l’Unione Sovietica è caduta, così cadrà anche l’Unione europea: l’unico problema è che, più sarà ritardato il giorno del crollo, più danni dovremo pagare sulla nostra pelle”. 



La partita storica si declina, così, chiaramente e la sfida è posta. Ma, mentre la sfida si chiarisce e definisce, la vita degli uomini segue il corso di questo superleviatano burocratico che oscilla tra un ottuso monetarismo senza prospettiva e un giuridicismo estenuante e, infine, disumano. E’ un loop, un cortocircuito che non si può sanare dall’interno stesso della macchina che l’ha generato. Occorre fare un altro percorso.

Perché la strada che seguiamo non è quella dell’analisi, seppur stringente, ma quella del giudizio, che non si accontenta di sapere, capire e fare a brandelli l’oggetto che ha di fronte, ma vuole abbracciare l’intera realtà, come per rilanciarla da un altro punto, più luminoso o meno oscuro. Certo, stupisce che la lezione di Alexis Carrel, richiamata da don Giussani fin dalle prime pagine del Senso religioso, non trovi più accoglienza, come invece dovrebbe, soprattutto in area cattolico-sociale: “Poca osservazione e molto ragionamento conducono all’errore. Molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità”. E’ il realismo che legge il presente come storia e presenza di un avvenimento continuamente rilanciato dal lavoro, dal bene voluto e cercato, dal ben-essere degli uomini. Proprio quel bene affermato da Carrón e censurato, nonostante le reiterate convergenze, da chi compie l’operazione ideologica di ragionare molto e osservare poco.

Gli esempi sono molti e significativi, dalla sussidiarietà negata, di fatto, al monetarismo ideologico, stampella incerta di un’austerità che, con eccessivo ritardo, sta perdendo la sua aura di panacea di ogni male sociale. E’, invece, la famosa cura del cavallo che, dichiarandosi vincente, alla fine deve fare a meno del cavallo: morto. Appunto: ancora una volta, si fa fuori la realtà. Quest’operazione richiama alla mente il geniale Marx che inventò due categorie non male per beccare qualche brandello di realtà storica. La prima: le ideologie non hanno storia. Sono sempre film già visti, è vero, ma le sale per replicarli non mancano mai. Ecco perché Bukovskji ha ragione: prima l’Urss, dopo la Ue. Ma c’è un altro passaggio marxiano utile da richiamare: quando si vuole costruire un castello ideologico, si parte dalla storia, si dice che non è storia, ma natura e questa natura la si fa diventare eternità. E’ l’operazione di Smith e Ricardo, nella lettura di Marx, un buon modo per dichiarare ai popoli, di ieri e di oggi: non si può mettere in discussione il modo di produzione capitalistico. Tradotto: non si può discutere la Ue, trattasi di faccenda agganciata alle luci dell’eterno, appunto beatitudini storiche e mondane. 

Obbedire, schiena curva, ma non discutere dei fondamentali. Allora, Bukovskji, cosa pensate dell’Europa? “Spiacente, figliolo, ma non ho niente di bello da dirle sull’Unione europea, se vuole possiamo parlare di altro, che ne dice del tempo?”. Sì, anche del tempo che fu, quando i padri dell’Europa (dei popoli) sprizzavano (il/un) bene da tutti i pori.

Perché il bene, un bene si affermi deve sempre esserci qualcosa che viene prima. Sappiamo bene cos’è: la realtà. Tornare ad essa e stare di fronte ad essa, con umiltà appoggiata ad un metodo certo, è la strada. La stessa che conduce al significato che sta dentro la cosa e scatta la domanda vera: cos’è l’Europa per me, che vivo in quel dominio storico, culturale e religioso? Così l’Europa mi riguarda da vicino, diventa “cosa” mia, un bene, nell’esperienza. Al di là di ogni scontatezza. Di ogni ideologia.