Con la morte del dittatore Jorge Rafael Videla si chiude simbolicamente un capitolo nella storia dell’Argentina. Il suo ultimo alito di vita lo ha trovato nella solitudine della sua cella, condannato per sempre dalla giustizia per crimini contro l’umanità e dalla società come il principale responsabile di un piano sinistro e sistematico messo in atto dallo Stato che aveva come scopo la persecuzione, la tortura, l’omicidio e la “sparizione” di migliaia di argentini nel violento decennio del ’70.
Come massima carica dell’esercito e capo della giunta militare che usurpò il potere nel marzo del 1976, con la indispensabile complicità, indifferenza o accettazione passiva da parte della società civile, sfiancata dal clima di terrore imposto dalla guerriglia di matrice guevarista e/o pseudo peronista e dalla sua repressione paramilitare ai limiti della legge per mano della Tripla A (Alleanza anticomunista argentina, ndr) e dei servizi segreti delle forze armate e di polizia, egli fece della Dottrina della sicurezza nazionale – elaborata nella nordamericana Accademia militare di West Point negli anni 60 e condannata dai vescovi dell’America latina con papa Giovanni Paolo II a Puebla nel 1979 – l’argomento ideologico su cui appoggiare una politica criminale di scala.
Chi ha abbastanza “stomaco” per farlo può leggere la massa di testimonianze raccolte nel “Mai più” – il documento finale della Commissione Nazionale sulla Scomparsa di Persone (Conadep), che non venne mai accusato di falsità e servì come base per lo storico processo che condannò la giunta militare, prima che essa fosse graziata dall’ex presidente Carlos Menem – e capire il livello di crudeltà e cecità ideologica con cui i seguaci di Videla realizzarono il loro piano criminale.
Il tempo trascorso da allora ad oggi consentirebbe senza dubbio un’analisi obiettiva dei fatti, ma sembra che questa sia ancora lontana dall’avvenire. Da parte dei militari del “Processo”, dall’iniziale negazione dei crimini si passò alla loro giustificazione politica, e in seguito a un discreto e parziale riconoscimento, ma mai a un pentimento. Nel libro-intervista a cura del noto giornalista Ceferino Reato (“Disposición final”, Ed. Sudamericana, 2012), Videla giunse alla confessione e all’anticamera del pentimento affermando: “Cada desaparición puede ser entendida ciertamente como el enmascaramiento, el disimulo, de una muerte… no estoy arrepentido de nada, duermo muy tranquilo todas las noches; tengo sí un peso en el alma, pero no estoy arrepentido ni ese peso me saca el sueño.” (“Ogni sparizione può essere certamente considerata come il mascheramento, la dissimulazione di una morte… non mi pento di nulla, dormo molto tranquillo tutte le notti; ho sì un peso sull’anima, ma non sono pentito e quel peso non mi leva il sonno”).
D’altro canto, nemmeno i “militanti” di diverso segno che alimentano le fila della lotta armata, molti dei quali oggi godono della protezione del governo Kirchner (il quale ha trovato nel revival ideologico degli anni 70 e nell’unzione dei terroristi come martiri la formula per conquistare le generazioni più giovani che non hanno vissuto né sofferto la violenza di quegli anni) hanno mai fatto autocritica riconoscendo che la loro scelta di andare avanti rifiutando di integrarsi nella vita democratica durante l’ultimo governo di Peron fu la causa immediata della nascita del terrorismo di Stato di Videla con il suo doloroso seguito di esilio, morte e saccheggio economico subita da tanti innocenti e dal popolo argentino nel suo complesso.
La morte del dittatore, oltre al giudizio storico completo, tuttora in sospeso, del quale sono debitori coloro che, senza distinzione di blocco, furono protagonisti dei fatti, solleva – almeno − due riflessioni ineludibili.
La prima interpella i cristiani cattolici.
Videla si professò sempre cattolico, e lo manifestò pubblicamente, proprio come fecero tanti di coloro che egli perseguitò e fece uccidere.
Inoltre (e questo è il punto) egli cercò di giustificare la sua azione politica e militare con il Vangelo, e almeno dovremmo concedergli di essere stato sincero − più di altri personaggi del “Processo” − nella sua convinzione di aver intrapreso una lotta contro Satana, allora associato o addirittura identificato con la “minaccia marxista”. Videla visse persuaso di aver combattuto una guerra giusta in termini tomisti e di essere un prigioniero politico per volontà divina. Come conciliare questa convinzione con i crimini atroci della dittatura? Si comprende qui perché Giovanni Paolo II fin dall’inizio del suo pontificato, e in particolare della sua missione in America latina, abbia sempre insistito sulla necessità che la fede diventi cultura, cioè criterio di conoscenza e principio di azione di tutto lo sforzo umano.
Una fede, anche sincera, che non diventa cultura è costantemente a rischio di trasformarsi in ideologia. Non è più il Fatto più grande di se stessi con cui confrontarsi e porre in questione tutto ciò che uno crede, pensa e fa, ma semplicemente un dispositivo argometativo su misura per giustificare qualsiasi avventura personale o collettiva di stampo fondamentalista. Una fede ridotta a mera devozione, o anche semplice etica, senza uno spazio reale per il Mistero e separata dalla sicura guida storica della Chiesa − il Successore di Pietro e i Vescovi in piena comunione con lui − è alla mercé dell’interpretazione e della manipolazione.
La seconda riflessione è comune a tutti e ha a che fare con la giustizia, con il senso di giustizia. La morte del dittatore in prigione soddisfa la sete di giustizia di coloro che patirono la tortura e l’esilio, o che ebbero un loro caro “scomparso”, o che per anni videro la loro identità adulterata essendo bambini rubati? Categoricamente no. L’esigenza di giustizia è infinita e inesauribile: la morte del colpevole non è sufficiente, non permette di recuperare nè il tempo nè la vita perduta. Se Videla, che finì per ammettere i crimini commessi dalla dittatura, avesse concluso il suo itinerario umano pentendosi pubblicamente – non sappiamo se l’abbia fatto in privato – della sua condotta, questo sarebbe bastato per riparare il danno provocato? No. Il peccato, il male di cui siamo capaci è un dramma misterioso e incomprensibile, una ferita profonda e aperta che non cessa di sanguinare. Non si hanno giustizia, né perdono, né riconciliazione vera se non si parte da questa evidenza incontestabile.
Come società, gli argentini hanno una lunga strada da percorrere.
I processi noti come “prove della verità” che sono in corso in tutto il paese, e che hanno portato in carcere tra gli altri Videla, sono solo il primo ed essenziale passo di questo cammino, perché il punto di partenza non può essere altro che la verità. Ma se la condanna giudiziaria, anche la più aderente al diritto, esaurirà l’orizzonte del problema, resterà in bocca un sapore amaro a tutti, vittime e colpevoli di qualque segno e fazione, e avremo perduto un’occasione storica per capire qualcosa della vita e della società. E saremo pronti a ripetere gli errori del passato, come suggeriscono alcuni discorsi ufficiali del presente.