Risulta molto difficile per la nostra esperienza comprendere come per i Greci il kosmos, cioè l’universo armonico, possa essere nato da una guerra fra dèi, nato cioè da sopraffazioni e rivolte. La nostra idea cristiana di Dio è legata indissolubilmente al Dio trinitario, tre persone unite da un rapporto di amore traboccante. Ma senza tale comprensione, senza l’accettazione stupita e rispettosa di un’idea a noi estranea, sarebbe impossibile cogliere la persistente idea di giustizia che attraversa la cultura greca, soprattutto nell’età arcaico-classica: una possibile giustizia terrena garantita da una realtà sovraterrena ordinata.
È Esiodo il primo “teologo” del mondo ellenico, il primo sistematore di quel complesso di credenze nate dalla sovrapposizione delle divinità celesti indoeuropee e delle divinità terrestri e sotterranee indigene. Nei suoi versi troviamo violenti racconti di lotte, da cui emerge il regno di Zeus, capo delle generazioni celesti; troviamo però anche una dichiarazione di fiducia nella giustizia divina, a cui si appellano le vittime della disonestà umana perché intervenga a punire. Troviamo infine in differenti versioni la figura di Prometeo: nei secoli successivi avrà diverse riletture e susciterà un interesse inquieto.
Per origine Prometeo è un dio dell’antica generazione, quella dei Titani perdenti e sopraffatti: più astuto dei suoi consanguinei (con l’approssimazione delle antiche etimologie il nome venne interpretato come “preveggente, previdente”) si allea con Zeus e lo aiuta nella lotta per il potere. Evita quindi, per una scelta che può essere variamente giudicata, la condanna degli altri dèi dell’antica stirpe. Ma nell’epoca remota delle lotte fra dèi gli uomini non sono assenti: vivi della “vita di un giorno”, l’effimera esistenza umana che specialmente li distingue dalle divinità immortali, sembrano destinati all’estinzione. Qui le interpretazioni degli antichi divergono: tale rischio dipende da una debolezza che impedisce loro di difendersi e progredire? o da un errore nella loro originaria formazione? o da un preciso disegno che intende eliminarli, forse per sostituirli con un’altra stirpe? In ogni caso la condizione degli uomini suscita l’intervento di Prometeo.
Nelle diverse varianti vi sono degli elementi fissi, secondo la caratteristica di un mito che può modificarsi ma non snaturarsi. L’aiuto è dato contro la volontà di Zeus, l’antico alleato, e consiste in favori e doni sottratti agli esseri più potenti e stabili con l’inganno: incontriamo nei vari autori, Esiodo, Eschilo, Platone ed altri, ora il consiglio di barare nell’offerta al dio ora il furto di prerogative divine, il fuoco come l’arte politica. Costante è anche la punizione: Prometeo è condannato ad essere incatenato ad una rupe, col fegato divorato da un’aquila, sacra a Zeus.
Esiodo si sofferma soprattutto sul male che deriva agli uomini dai doni di Prometeo: poco interessato alla punizione subita dal dio, rileva come Zeus in diversa forma colpisca gli uomini per il loro coinvolgimento nel progetto; specie nel poemetto Le Opere e i giorni il lavoro a cui l’umanità è soggetta è visto, quasi biblicamente, come pena per tale colpa. E tuttavia il lavoro è inserito in una giustizia che, si diceva, Zeus garantisce: la pena è dolorosa ma ha un senso e, in fondo, una dignità.
Sarà Eschilo a incentrare l’attenzione direttamente su Prometeo, alla cui vicenda dedica tre tragedie legate fra loro, di cui solo una ci è pervenuta per intero. Il suo interesse per questo mito si colloca in un itinerario personale che indaga sul rapporto uomo/dio e libertà/destino, cercando nelle intuizioni religiose di un popolo senza rivelazione un perché all’esperienza di ogni giorno. La scelta di questa vicenda è in realtà una sfida: mostrandoci Prometeo dolorosamente punito per l’aiuto dato agli “effimeri” contro il potere del nuovo sovrano dell’universo, il poeta si sottopone al rischio di una lettura sentimentale, di un’adesione al protagonista perché vittima, o perché benemerito, o perché ribelle. Tale lettura non è mancata, ha dato luogo non solo a rivisitazioni del mito, ma anche alla proposta di considerare spuria la tragedia rimastaci, perché letta così sembrava contraria a tutto il percorso dell’autore.
In realtà dai diversi colloqui coi personaggi che vengono a trovare il Titano punito emergono alcuni giudizi fondamentali: il lungo elenco di benemerenze verso gli uomini che Prometeo proclama è indice di una posizione autonomistica verso il kosmos, il cui ordine armonioso non gli spettava: aythadìa viene definita tale posizione, cioè “il decidere da sé ciò che piace”; è indice anche di una colpa voluta con ostinazione: volontariamente, volontariamente ho sbagliato, ammette il dio con orgoglio alle Oceanine che lo ammoniscono; e la sua preveggenza è rispetto a Zeus limitata: il Titano ammette che non sapeva, non si aspettava il compiersi della pena minacciata. Davvero poi i doni di Prometeo agli uomini sono un bene? È un bene dare agli uomini cieche speranze, come Prometeo dichiara, o è solo un coprire il loro essere mortali? E qual è veramente il senso del progetto di Zeus sugli uomini? L’unico essere umano della tragedia, Iò, perseguitata da Era per l’amore di Zeus e sfigurata nell’aspetto, risanata darà origine ad una stirpe che popolerà tutto il Mediterraneo, Grecia, Egitto, Persia, Fenicia, Creta, Asia Minore, i cui originari legami di fratellanza sono percorsi da Eschilo in diverse opere: non potrebbe essere questo il progetto di Zeus?
Sappiamo che nella parte perduta della trilogia prometeica avveniva una riconciliazione: un eroe della stirpe di Zeus e Iò, Eracle, aveva il permesso di liberare Prometeo che accettava il potere di Zeus. E con lui erano liberi e riconciliati gli altri dèi dell’antica stirpe, secondo un’idea chiave che sarà approfondita al termine del percorso di Eschilo, sempre teso a ricercare un’idea di giustizia che soddisfi l’attesa umana.