Il 24 marzo 1980 mons. Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador, fu ucciso da un cecchino mentre stava celebrando l’Eucaristia nella cappella di un ospedale della capitale, venendo così “giustiziato” da chi non aveva accettato le sue vibranti critiche ai comportamenti violenti del regime dispotico allora al comando nel suo paese.
Figura certamente discussa allo stesso interno della Chiesa cattolica, mons. Romero s’immolò consapevolmente per una causa di giustizia sociale e per la difesa dei diritti umani in quella stessa contraddittoria realtà salvadoregna che solo pochi mesi dopo la sua morte sarebbe stata condotta a una lunga e sanguinosa guerra civile: 80mila morti, specialmente tra i contadini, in dieci anni di orrori e sofferenze, recentemente descritti con puntualità da Massimo De Giuseppe in una sua biografia del prelato latino-americano.
Uomo di Chiesa formatosi nella culla intellettuale del clero cattolico, quella Pontificia Università Gregoriana che egli frequentò nel pieno della seconda guerra mondiale, tra il 1937 e il 1942, Romero – una volta rientrato nel suo paese – aveva svolto con umiltà il ruolo di parroco, di segretario del vescovo di San Miguel Machado, per divenire in seguito segretario della conferenza episcopale nazionale.
Nel 1970 egli era stato poi nominato vescovo ausiliare di San Salvador, affiancando mons. Gonzales, e trovando così modo di distinguersi all’interno dell’episcopato salvadoregno, che allora, almeno in buona parte, stava assumendo posizioni molto progressiste in ambito pastorale e teologico: fu inevitabile per lui, per studi e inclinazione culturale pienamente fedele alla tradizione romana, essere fatto passare per l’ecclesiastico tipicamente conservatore, amico tra l’altro dell’Opus Dei, e soprattutto avverso o perlomeno impermeabile all’allora pervasiva penetrazione dei modelli sociali e di lotta espressione della teologia della liberazione e dei movimenti di base.
Fu allora che la sua figura cominciò a suscitare simpatie e antipatie, finendo inevitabilmente per essere amato dall’oligarchia al potere nel paese, e nello stesso tempo disprezzato proprio dai locali padri gesuiti, gli stessi dai quali aveva ottenuto la propria formazione teologica a Roma. Ma si trattò di una fase circoscritta: nominato vescovo della poverissima diocesi di Santiago de Maria nel 1974, Romero visse empaticamente l’esperienza di un popolo tragicamente vessato dalla prepotenza del regime militare, oppresso materialmente e spiritualmente da un comitato di latifondisti che ne sfruttava a proprio vantaggio personale ogni risorsa, lasciandolo spoglio di tutto.
Così, quando il 3 febbraio 1977 fu promosso arcivescovo di San Salvador, egli aveva ormai percorso interamente un itinerario di “conversione”, rivolgendosi decisamente verso le drammatiche esigenze della popolazione, benché una parte della borghesia locale lo volesse ancora vedere come un difensore della propria impostazione culturale.
Il segnale del cambio di rotta fu il rifiuto opposto dal nuovo arcivescovo all’edificazione proposta dalle famiglie benestanti di un monumentale palazzo vescovile: Romero continuò a risiedere in una stanzetta presso la sacrestia della cappella dell’Ospedale della Divina Provvidenza. Una scelta in cui non si può non leggere una singolare consonanza con l’attuale decisione di Papa Francesco di mantenere la propria residenza nella semplice sistemazione comunitaria della Domus Sanctae Martae.
Nondimeno in quella fase fu ancora un gesuita, Ignacio Ellacuria, ad indicargli la sensatezza della cosiddetta “opzione per i poveri”, nel contesto di un paese ammantato di una povertà profonda come El Salvador: di lì, il passo dell’arcivescovo verso un’azione di denuncia esplicita dei gravi comportamenti del regime attraverso la radio diocesana e la commissione per i diritti umani fu breve. Iniziarono così le letture pubbliche al termine delle celebrazioni eucaristiche dei nomi delle vittime per mano del governo riconosciute, altrimenti destinate ad ingrossare le fila di quel muro di omertà rappresentato dai “desaparecidos”. Come ha sottolineato ancora De Giuseppe, forte fu il riscontro anche in Italia di questo nuovo stile di testimonianza diretta, che contagiò intellettuali come La Valle, religiosi come Turoldo e Paoli, uomini di Chiesa come il card. Martini: per una parte dell’associazionismo cattolico la testimonianza di Romero si può in effetti considerare come “un punto di non ritorno”, che favorì in particolare un nuovo spirito di cooperazione con il Centro America da parte soprattutto di molti esponenti del cattolicesimo democratico. Ciò, nonostante per una componente significativa del partito cattolico in Italia, o almeno per diversi democristiani, il sacrificio di Romero fu poi vissuto di contro con un certo malcelato imbarazzo, per una sua presunta distonia con le regole della Chiesa.
Un atteggiamento critico che fu proprio, innanzitutto, di una parte significativa dell’episcopato salvadoregno, più ancorato su posizioni conservatrici, e che collaborò al formarsi nell’opinione pubblica di un’immagine postuma di Romero come quella di un presule debole, manipolato dalle correnti rivoluzionarie di sinistra, e soprattutto di contestatore dell’istituzione ecclesiastica dall’interno. Quest’ultimo aspetto dovette avere un impatto particolarmente negativo sulla gerarchia, e lo fece inquadrare spesso nel complesso dei nuovi movimenti contestatari postsessantottini.
In realtà, da un punto di vista dottrinale e teologico, Romero restò sempre fedele alla tradizionale lettura dell’impalcatura ecclesiastica, e non fu un sostenitore di dottrine “neoprotestanti”, per dirla ad esempio con un’espressione spesso utilizzata in Concilio dal card. Giuseppe Siri nei confronti degli episcopati franco-tedeschi. E non si può d’altro canto ridurre la sua testimonianza a quella del filone ecclesial-ideologico in voga nella sua terra al tempo, quello della teologia della liberazione, perlomeno nella rigida interpretazione di Gutiérrez e Boff, dai quali fu lontano per visione culturale ed esigenze pastorali.
Romero, al contrario, espresse quella fedeltà alla Chiesa che lo spinse proprio a richiedere a due pontefici, Paolo VI e Giovanni Paolo II, di sostenere la sua linea di condanna dei comportamenti della giunta militare, non ottenendo, però, sempre soddisfazione alle sue richieste.
Tuttavia non sarebbe giusto per questo nemmeno “normalizzare” il vescovo di San Salvador in un ottica di mera conservazione, perché egli fu un propugnatore del rinnovamento sociale nel suo paese, e la sua azione riconciliatrice a livello nazionale non fu mai un gioco al ribasso, ma il tentativo originale di pervenire ad una sintesi alta delle varie e spesso contrapposte istanze presenti. Si trattava, nella sua azione sociale prima ancora che pastorale, di ricostruire una memoria condivisa attraverso un confronto a viso aperto con le drammatiche fratture prodotte dalla guerra civile, per giungere a fondare la pace sull’esercizio della giustizia sociale. Forse un percorso che per la sua morte a poco più di sessant’anni non gli fu possibile percorrere come desiderava, e che oggi si potrebbe persino in parte avvicinare all’esperienza sudafricana della Truth and Reconcilation Commission post-apartheid (o di alcune esperienze di peacekeeping intraprese negli ultimi anni dall’Irish Interchurch Meeting a Belfast), e che non gli fu propizia di grandi placet per il suo carattere di coraggiosa e indomita denunzia.
Fu il beato Giovanni Paolo II, lo stesso papa che in passato gli aveva rimproverato di non avere mai esplicitamente condannato la teologia della liberazione, a porre inizio ad una lenta rivalutazione di mons. Romero; lo fece rompendo le consegne diplomatiche nella sua visita in San Salvador nel 1983, pretendendo di poter pregare sulla sua tomba e, più avanti nel 1997, facendo aprire la sua causa di beatificazione. Causa che si sarebbe bloccata, apparentemente per “inghippi” di tipo teologico (verificare la necessità di un miracolo come si conviene alle cause fondate su profili personali di santità, in caso egli non fosse stato ucciso in odio alla fede) – in realtà per le suddette perplessità generali sulla sua figura nutrite da molti porporati, e che oggi, con il primo papa gesuita e latino-americano della storia della Chiesa, si sblocca.
Nel suo recente intervento il postulatore della causa, mons. Vincenzo Paglia, nonché presidente del Pontificio Consiglio della Famiglia, pronunciato a Molfetta in occasione della celebrazione per i venti anni dell’uccisione di don Tonino Bello, nell’annunziarne la riapertura ha ricordato la convinzione di Mons. Romero che il Concilio Vaticano II avesse sollecitato tutti i cristiani ad essere martiri per la fede, donando anche la propria vita per testimoniare i propri ideali.
Forse allora, come ha avuto modo di recente di ricordare lo storico Roberto Morozzo della Rocca, l’elemento più affascinante nella testimonianza di Romero è proprio la sua scelta consapevole del martirio, e per questo particolare attestazione di libertà cristiana la sua figura merita oggi non solo una rivalutazione storica, ma anche l’essere indicata tra i possibili modelli di vita esemplari del cristianesimo del Novecento.