«Distrutto. Ho la febbre / e tremo. Fermo ai piedi / dell’orologio pubblico / sotto la pioggia che cade. / Segnava le sette / quando cominciai ad aspettare / ora le sfere segnano ottanta / centocinquanta, duemila / tre miliardi di ore come massi / di piombo. Io ancora qui / che aspetto e le ore e i giorni / e gli anni. / E tu non vieni, amore».
Questi versi appartengono alla penna di Dino Buzzati, uno dei più grandi autori del Novecento letterario italiano, spesso ridotto ad autore del celebre e noioso (se decontestualizzato) Deserto dei Tartari; ghettizzato dalla critica a causa della pesante e ingenerosa definizione (da lui rifiutata) di «Kafka italiano», di cui invece condivideva solo lo sguardo obliquo e visionario; considerato un brillante scrittore di romanzi e racconti, ma quasi ignorato come autore di elzeviri, articoli di cronaca nera e sportiva, fumetti, teatro, libretti d’opera, quadri e persino ex-voto: nella portentosa versatilità dell’animo artistico di Buzzati vi fu spazio anche per la parola poetica.
Nei pochi versi citati esplode, quasi colpita al centro, l’alta tensione di tutta la produzione letteraria di Buzzati: un tempo infernale che non si pone come spazio di possibilità, ma come insana e ciclopica categoria della morte, la fedele speranza che sfida la debolezza umana («ho la febbre / e tremo»), l’incrollabile presenza del sentimento dell’attesa di un amore, di “qualcuno che deve venire”. La forma immediata e fulminea della versificazione permette a Buzzati uno scavo di sé all’aria aperta, senza lo scudo o la fortezza dell’invenzione narrativa. La parola poetica aggetta il desiderio e la tensione, agganciandoli e traendoli fuori: quanto pesa, dopo l’incedere quasi rotolante del tempo, il punto fermo di: «E tu non vieni, amore».
Le poesie di Buzzati sono state raccolte e pubblicate dall’editore Neri Pozza nel 1982. Un corpus così ridotto – una quarantina di poesie, tra le quali tre poemetti più sostanziosi – dà luogo a una zona d’ombra della sua produzione letteraria. Ma un motivo c’è, e lo spiega l’autore stesso proprio all’interno di una sua poesia: «Ci siamo intesi al volo? / Come nella vera poesia. / La quale non voglio dire che si trovi qui presente. / Non posso né voglio dire una cosa simile. […]». Buzzati, al contrario di molti prosatori che spesso hanno frequentato la poesia come genere, mantiene un distacco, riconosce la posta in gioco e capisce di non sentirsi all’altezza. Ma di cosa? La riflessione è tutta sul ruolo della letteratura: com’è possibile la poesia, perché non è scontato scrivere versi? L’ispirazione è una grazia, ci risponde Buzzati. Se solo il poeta è capace di «parole misteriose che domani, soccorrendo la grazia, trapaneranno i cuori della gente», possiamo dirci con leggerezza poeti?
Siamo in grado di dire che il nostro verso ci permette di «intenderci al volo», ovvero che è in grado di dire l’umano? L’invenzione poetica non nasce da un ragionamento precostituito, non richiede un’intelligenza fuori dalla norma, e nemmeno una cultura particolarmente approfondita. La grazia – termine di radice cristiana – coincide con l’ispirazione: Buzzati comprende perfettamente il senso in cui gli antichi parlavano della musa. Essi «si esprimevano forse in forma un po’ troppo simbolisticamente mitologica», ma avevano percepito esattamente quali siano le forze in gioco. Grazia come «intervento estraneo, che non dipende da noi», segno di una predilezione che risponde a parametri inconoscibili e imprevedibili. Sembra quasi che la poesia sia ispirata dalla Provvidenza: il senso religioso dell’ateo Buzzati aveva colpito anche Montale, che parlava di lui come di un autore «cristiano naturaliter, pagano come tutti gli artisti». Perché esista la poesia è dunque condizione necessaria una grazia non equamente distribuita: «ci sono infatti degli scrittori che hanno tutte le doti possibili e immaginabili ma non sono toccati dalla grazia della poesia».
Come è imprevedibile l’elargizione della grazia della poesia, così è imprevedibile la poesia stessa, che, di natura, propone il più delle volte un “volo pindarico”. Con tale espressione Buzzati intende «la caratteristica dei veri poeti, i quali evocano […] una pianta in un giardino, e di colpo volano all’amico morto in battaglia […]».
Con questa tensione inchiodata dentro, Dino Buzzati scrive versi ironici, fatali, struggenti o piuttosto non li scrive. Il capitano Pic, protagonista dell’omonimo poemetto, è un Giovanni Drogo in versi: anche lui, militare ligio al regolamento, è costretto a perlustrare un deserto vuoto di senso, quell’esistenza schiava di uno statuto autoimposto che non lascia spazio alla vera scoperta, al disvelamento di un mistero inquieto che rischia di diventare inquietante, un regolamento che «[…] non dice / le cose dolci della vita / le sere fantastiche della città / di colle in colle innalzantesi / muraglie di avventure e di amori / bianchi rosa o viola i palazzi / in sconfinati grovigli con la potenza / delle rupi e / l’animo trema / con dentro la mano del fato. / Dove non dice lo sguardo di lei / voltandosi con l’ardente peso / di quelle labbra […]».
Il cristianesimo naturale di Buzzati riconosciuto da Montale trova nel suolo scottante e dissestato della poesia un arsenale necessario alla battaglia di fede che in lui mai si è sopita, nemmeno dinanzi alla morte: «Dio che non esisti ti prego / che almeno su questa grande nave / che mi porta via / le cabine siano…siano ben areate […] // Ma se non esiste, perché lo preghi? // Non esiste fintantoché io non ci credo / finché continuo a vivere come viviamo tutti / desiderando desiderando / ma se io lo chiamo… // Troppo tardi… // Per la forza terribile dell’anima mia / forse vile, trascurabile in sé / però anima nella piena portata del termine, / se io lo chiamo verrà».