29 maggio, sessant’anni dalla conquista dell’Everest. Difficile dire cosa resti di quell’impresa dopo decine di libri e dopo che, dieci anni fa, nel cinquantesimo anniversario si scrisse tutto quanto era possibile ancora dire su questa vicenda.

La conquista dell’Everest ebbe due caratteristiche importanti: fu l’ultima delle grandi conquiste geografiche sul nostro pianeta e fu un successo fortemente voluto dai britannici che vi dedicarono cinque spedizioni prima di riuscire a raggiungere la cima. È vero che gli svizzeri ci andarono vicini un anno prima, ma fu un tentativo isolato. 



La spedizione del 1953 che conquistò la vetta fu un perfetto gioco di squadra dove tutti i partecipanti si muovevano con l’unico scopo di permettere che uno di loro arrivasse in vetta; nelle decine di pubblicazioni e interviste degli anni successivi, non una polemica – come sempre più di frequente accade nel mondo dell’alpinismo di punta – o un rammarico ma solo, da parte di tutti, la gioia di aver partecipato all’impresa e di averla portata a termine.  



La storia dell’Everest, comunque, è fatta innanzitutto di uomini, anche se non è questa la sede per elencare gli alpinisti che hanno percorso vie significative su quella montagna; comunque tutti tra i più grandi degli ultimi cinque decenni. Non è stato proprio così invece per la prima spedizione: Edmund Hillary, l’uomo che insieme allo sherpa Tenzing Norkay raggiunse la cima, era un ottimo alpinista ma certo non era annoverato tra i “grandi” dell’epoca; anzi, al di fuori del giro degli alpinisti del suo paese o dell’Alpin Club di Londra era un perfetto sconosciuto. Aveva fatto buone scalate in Nuova Zelanda e aveva avuto occasione di passare qualche settimana nelle Alpi, ma nulla di più. 



Fu invitato alla spedizione esplorativa che doveva verificare la possibilità di salita per il versante nepalese (Sud) perché cittadino del Commonwealth e perché aveva avuto una precedente  esperienza di salita ad un settemila nella catena del Garhwal, nell’Himalaya indiano, e allora non erano certo molti gli alpinisti con esperienza di salite himalayane. Come quasi tutti gli alpinisti non europei di allora non aveva una grande tecnica di scalata e la sua esperienza su roccia era piuttosto limitata, ma aveva imparato a muoversi in grandi aree isolate, su terreni di misto, ed era dotato di una grande resistenza e caparbietà. Del resto il suo più grande contributo tecnico alla salita si potrebbe considerare l’individuazione e l’apertura del percorso sull’ice fall, il grandioso fiume di ghiaccio alla base del versante Sud dell’Everest; un operazione che richiese grande capacità di orientamento, resistenza e grande pazienza.

Si era avvicinato all’avventura fin da ragazzo, quando leggeva molti libri su questi argomenti nelle quattro ore impiegate per andare e tornare da scuola; a causa della sua costituzione fisica pensava di essere inadatto alle imprese che comportavano un impegno fisico finché all’età di sedici anni, durante una vacanza scolastica in montagna, scoprì di essere molto più resistente della maggior parte dei suoi compagni. Cominciò così ad avvicinarsi prima all’escursionismo e quindi all’alpinismo progredendo fino a compiere, invitato da un suo amico guida, la prima ascensione del Monte Cook, il più alto della Nuova Zelanda.

Il resto è storia; l’essere stato il primo a salire sulla vetta della montagna più alta ha certo cambiato l’esistenza di questo tranquillo provinciale figlio di apicoltori, ma non la mentalità. Dopo l’Everest i viaggi, gli inviti  ed i premi si sono susseguiti senza interruzione fino agli ultimi anni della sua vita, ma le cose che lo interessavano erano fondamentalmente tre: la famiglia, gli amici e l’avventura. Tornando dalla spedizione fece scalo a Sidney, dove al conservatorio studiava la sua cara amica  Louise, per chiederle se avesse voluto sposarlo (cosa che accadde e da cui nacquero tre figli); da allora, e per quanto gli impegni e le proposte fossero numerosi, la famiglia occupò sempre il primo posto nelle cose che faceva e appena l’età dei figli lo permise cominciò a fargli conoscere le bellezze del mondo che aveva incontrato, portandoli anche al campo base dell’Everest. 

Louise appare in molte pagine di suoi scritti al fianco di Edmund e la sua presenza è sempre avvertita nei lunghi distacchi durante i viaggi, in una continua ambivalenza tra il restare ed il partire. Hillary aveva un carattere allegro ed affabile ed anche per questo era amato e stimato in tutto il mondo alpinistico, non era certo uno che “se la tirava” e non mancava mai di ricordare che la conquista dell’Everest era stata possibile solo perché ognuno dei partecipanti aveva lavorato per gli altri. I due viaggi compiuti in Himalaya, che allora richiedevano qualche mese di permanenza, lo portarono a conoscere da vicino il popolo Sherpa e a diventare grande amico, oltre che di Tenzing, di molti altri nepalesi. A differenza di altri alpinisti di allora che concentravano le loro attenzioni solo sulla conquista della montagna, situazione peraltro molto diffusa anche oggi, si rese conto della povertà e dell’arretratezza del popolo nepalese; questo lo portò a considerare l’attività alpinistica  non solo come approccio alla montagna ma come occasione per conoscere e approfondire i rapporti con le persone e le tradizioni che incontrava, e lo fece non da colonialista ma considerandosi innanzitutto un amico che desiderava condividere con loro dei momenti di vita.

Questo si tradusse non solo nel vivere insieme momenti di avventura ma soprattutto nel cercare di affiancarli nelle loro difficoltà: fu così che intravvide, insieme all’amico Tenzing, la necessità di provvedere all’educazione dei loro bambini. Fondò l’Himalayan Trust con lo scopo innanzitutto di costruire scuole ma anche qualche ospedale e migliorare le vie di comunicazione interne tra i villaggi separati da corsi d’acqua. I nepalesi hanno compreso come questa attività fosse un progetto fondato sulla condivisione di un bisogno e nel 2003 gli assegnarono, primo e fino ad ora unico straniero, la cittadinanza onoraria; gli sherpa lo hanno sempre chiamato “Burra-Sahib”, che significa grande statura, grande cuore.

Credo che il modo migliore per ricordare la sua impresa sia quello di riportare l’ultimo paragrafo della sua biografia (Arrischiare per vincere nell’edizione italiana): “Ognuno di noi deve scoprire il suo sentiero: di questo sono sicuro. Alcuni sentieri saranno spettacolari ed altri silenziosi e quieti; chi può dire qual è il più importante? Per me i momenti più rimunerativi non sono sempre stati i grandi momenti; che cosa infatti può essere superiore ad una lacrima per la tua partenza, alla gioia per il tuo ritorno, ad una mano che si affida alla tua?”.