Prescindendo da tutti gli aspetti tecnico-informatici – che pure molti analisti considerano (e sono) cruciali – la sedicente webdemocrazia riporta l’attenzione su due questioni ben note agli storici e ai politologi: chi realmente partecipi alla democrazia esprimendo la propria opinione, e donde quella opinione scaturisca. Qui per vero lo storico non può dimenticare che a monte di questi problemi ne sta uno originario: come si definisca il perimetro della comunità ammessa a esprimersi. E poiché appena si parli di democrazia (a partire dalle origini del termine) il pensiero torna più o meno legittimamente all’Atene classica, converrà ricordare che in effetti il modello greco aiuta se non altro a riflettere sul fondamentale processo di esclusione che caratterizza qualsiasi comunità dotata di diritti politici.



Si prenda il caso, forse più simbolico che reale, dell’Atene di Pericle: il voto, formalmente, era concesso a tutti, vale a dire a chiunque partecipasse all’assemblea. Ma in realtà a esercitarlo era una comunità ristrettissima, gli ultimi superstiti di un radicale processo di riduzione. Al numero complessivo degli abitanti si dovevano intanto togliere gli schiavi. Dopo gli schiavi, le donne. Dei maschi liberi che rimanevano, solo quelli genuinamente ateniesi (e poiché Atene viveva di flotta e di commerci marittimi, i “meticci” non saranno stati pochi). Fatti i conti, la stragrande maggioranza della popolazione veniva formalmente esclusa (basti pensare che il rapporto tra schiavi e liberi era almeno di tre a uno). 



La prima drastica selezione riguardava dunque, nella polis, l’acquisizione del diritto di cittadinanza. Ma all’interno di quel già limitato perimetro, interveniva poi un’altra selezione: l’esercizio del diritto. Solo un ristretto numero di ateniesi erano cittadini, e solo un ristretto numero di cittadini andavano all’assemblea. Il filtro è doppio. Alla fine del V secolo ci viene fornita una proporzione: di 30mila aventi diritto, lo esercitavano più o meno 5mila. Il conto è impietoso: a far valere la propria opinione era un sesto di un quarto (ed è un calcolo generoso, perché vi andrebbero sottratti i non «purosangue»).



E oggi? Nelle democrazie occidentali la schiavitù (formalmente) è stata abolita e le donne sono ammesse al voto: rimane, com’è noto, il problema dell’allargamento della cittadinanza agli stranieri, verso i quali il processo di inclusione, diverso di Stato in Stato, ha ancora parecchia strada da compiere. Rispetto all’Atene periclea, dunque, la riduzione riguarda per lo più (e per fortuna) il secondo filtro: non già l’acquisizione del diritto, ma il suo esercizio. Al cospetto della webdemocrazia la domanda che ci si deve porre è dunque la seguente: nell’inevitabile processo di riduzione che caratterizza da sempre la comunità “democratica”, quale ruolo ha il web? Allarga il corpo civico attivo, o è piuttosto un ulteriore filtro? Non saremo noi a rispondere.

Più facile passare alla seconda questione. I cinquemila ateniesi che si recavano attivamente in assemblea votavano in base a una propria opinione. Ma come la maturavano? Pericle fu per molti anni il capo indiscusso della fazione democratica, e Tucidide gli attribuisce un celeberrimo discorso che passa alla storia come rappresentazione ideale e compiuta della democrazia. Eppure il giudizio di Tucidide è inequivocabile: «a parole era una democrazia, ma di fatto era il governo di un princeps» (II 65). C’è poco da sofisticare: il testo è un macigno inaggirabile. Il grande storico mette a nudo l’intrinseco connubio tra consenso popolare e guida carismatica: il popolo (il demos – ma abbiamo visto quanto ristretto) esercita la sua sovranità nei limiti entro i quali la costringe la leadership di un capofazione. Solo così si comprende perché il Pericle di Tucidide possa essersi guadagnato la venerazione, nella sua lunga ricezione postuma, ora dei democratici radicali, ora degli antiparlamentaristi.

Onde il problema del consenso. In assemblea i politici prendevano la parola: erano politici in quanto retori, e retori in quanto politici. Dovevano persuadere. Di qui l’elaborazione di una oratoria sofisticata e studiatissima. E di qui anche, nel corso dei secoli, la squalifica ormai pressoché irreversibile a cui è condannata la «retorica», intesa quale arte dell’inganno.

Anche su questo aspetto giova il paragone con l’oggi: gli “utenti” della nostra democrazia (e così pure della webdemocrazia) donde cavano i loro giudizi? Da quale capofazione dipendono? E come si guadagna costui il loro consenso? Aristotele aveva al proposito idee piuttosto chiare, e si sforzava di insegnarle ai suoi allievi. Nella prima pagina della sua opera a ciò appositamente dedicata, dice chiaro che la «retorica» si deve innanzitutto occupare del «pensiero»: è in altri termini una disciplina che dovrebbe misurarsi con il concatenamento logico e consequenziale dei suoi argomenti, non con gli artifici della parola. E deplora in tal senso che tutti i suoi predecessori avessero inteso la retorica come arte della seduzione, destinata a suscitare emozioni (menziona espressamente la collera, l’invidia, la calunnia). Tutto questo – dice Aristotele – non riguarda il pragma, l’oggetto vero della retorica, ma è diretto soltanto alle «passioni dell’anima»: non a descrivere la realtà, ma a influenzare chi la giudica. In tal senso il vero oggetto della retorica dovrebbe essere – e la definizione è memoranda – «il corpo della prova documentale». 

Il vero retore deve persuadere con la forza dei suoi argomenti e l’evidenza delle sue prove. E poiché retore è il politico, retore è il pubblico ministero, retore è l’avvocato, ne deriva che tanto le aule di giustizia quanto le riunioni assembleari dovrebbero essere guidate dalla ricerca della verità probatoria. Di qui la stretta affinità tra discorso giudiziario e discorso politico: con la differenza che il primo mira per sua natura al «passato», perché cerca di ricostruire «ciò che è avvenuto», mentre il secondo mira al «futuro», perché cerca di orientare «ciò che avverrà».

È un vero peccato che i nostri capifazione non leggano Aristotele. Ma ancor più è un peccato che non lo legga il demos: sia esso demo, o webdemo.