Nessuno scrittore del Novecento – e forse di nessuna epoca – ha sentito più di Marcel Proust il conflitto, se non addirittura la contraddizione, fra l’ansia di una realtà oggettiva, evidente, e l’orrore di una deriva soggettivistica che trasformasse quella stessa realtà in un sogno elusivo, in una impalpabile proiezione di se stessi. Il suo monumentale capolavoro, Alla ricerca del tempo perduto, può essere molte cose e avere molte definizioni, ma certamente è anche – e forse soprattutto – questo: lo sterminato campo d’azione di una lotta fra l’io e la realtà, fra il soggetto e la persistenza dell’oggetto; quasi una lotta, potremmo dire, con la realtà stessa: affinché la realtà dia, proprio nell’attimo in cui sembra stia per fuggire via dall’io, una parola definitiva sulla propria esistenza – una certezza.



I rapporti amorosi, che gremiscono la Recherche (dalla storia d’amore di Charles Swann per Odette de Crécy a quella del Narratore per Albertine), costituiscono proprio il terreno di scontro fra queste due percezioni. La dialettica narrativa, l’affabulazione, la ferocia teoretica di Proust nascono come reazione a questi interrogativi: chi è realmente la persona che si ama? Esiste davvero l’amore per una persona? O essa è soltanto la proiezione del proprio carattere, dei propri desideri, delle proprie inclinazioni? L’amore è un dono o una maledizione? Una grazia o un pericolo?  



È singolare, ad esempio, che Proust dica: «Troviamo innocente desiderare, e atroce che l’altro desideri» (III, 568): in una logica in cui l’altro è inafferrabile, la dinamica del suo desiderio – di contro all’assoluta naturalezza del nostro – diventa improvvisamente una minaccia: essendo proprio il desiderio quel fattore che rende imprevedibile l’umano, che lo fa erompere dalle determinazioni e dai calcoli. Proust ha avvertito quanto mai drammaticamente – in quell’esperienza terribile e comunissima che è la gelosia – che il desiderio è la base, la fonte della libertà. Un possesso che tenti di escludere la libertà dell’altro è impossibile, irrealizzabile: non perché non si possa tenere fisicamente prigioniera una persona (il Narratore fa infatti esattamente questo esperimento con la giovane Albertine), ma perché non si può impedirle di desiderare: «Spesso la gelosia è solo un inquieto bisogno di tirannia applicato alle cose dell’amore» (III, 479); e ancora: «Di calma non ce ne può mai essere nell’amore, perché quel che si è ottenuto non è che un nuovo punto di partenza per desiderare dell’altro» (I, 702-703): ogni tentativo di possesso non si esaurisce in una soddisfazione, ma funziona “come un trampolino”: si risolve in un’espansione del desiderio, in un gioco al rilancio potenzialmente infinito. 



Invece di placarsi, il desiderio diventa più vasto e più intenso. Se l’amore si ostina a rimanere, appunto, il tentativo di una conquista, l’infinità del desiderio diventa la causa di un destino tragico. Su questo, Proust è chiarissimo, come in questo passaggio di All’ombra delle fanciulle in fiore: «Il bisogno nasce dalla soddisfazione. Ne consegue che estendere il possesso della donna amata significherebbe solo renderci più necessario quello che non possediamo e che, malgrado tutto, rimarrebbe qualcosa d’irriducibile» (I, 764). 

Un’impossibilità che Proust denuncia a più riprese: «L’amore finisce sempre con l’urtare in un’impossibilità. Ci immaginiamo infatti che l’amore abbia per oggetto un essere che può stare disteso davanti a noi, rinchiuso in un corpo. Ahimè! Il vero oggetto è l’estensione di quell’essere a tutti i punti dello spazio e del tempo che esso ha occupato e occuperà. Se non possediamo il suo contatto con un certo luogo, con una certa ora, non possediamo nemmeno lui. E noi non li possiamo toccare, tutti quei punti. Se essi, almeno, ci fossero designati, potremmo forse estenderci fino a raggiungerli. Ma li cerchiamo a tentoni, senza trovarli. Di qui la diffidenza, la gelosia, le persecuzioni» (III, 490). O ancora: «Non si ama che ciò in cui si persegue qualcosa di inaccessibile, non si ama che ciò che non si possiede» (III, 804).  Diventato così una sorta di gioco al massacro, appare forse amaramente chiaro che l’amore diventerebbe così «una malasorte come quelle delle fiabe, contro le quali non c’è niente da fare finché l’incantesimo non è cessato».

Ma è un’impossibilità, questa, che rivela però qualcosa: un amore che non si appaga neanche nella persona fisica dell’altro, un amore impossibilitato alla conquista e al definitivo possesso, possiede in sé qualcosa di ulteriore, un’allusione interna a qualcosa che erompe dalla persona stessa e la supera: «L’amore, nell’ansia dolorosa come nel desiderio felice, è esigenza d’un tutto» (III, 497) scrive Proust, ancora nella Prigioniera. E in un passo, peraltro molto noto, scrive ancora: «Nelle persone che amiamo c’è, immanente ad esse, un certo sogno che noi perseguiamo anche se non sempre riusciamo a discernerlo» (IV, 509). 

Non è un caso che questo passo si trovi nell’ultimo episodio dell’opera, che s’intitola Il tempo ritrovato: in quel monumentale tentativo di recupero del perduto, di riconquista di una resistenza delle cose alla loro stessa frana, affiora appunto questa fugace ma decisiva intuizione: che l’amore per una persona abbia in sé quel «certo sogno», che magari non discerniamo, ma che pure perseguiamo e desideriamo, anche senza saperlo: perché è quel significato – di cui la persona amata costituisce il segno, l’“emblema drammatico” – che solo sempre si insegue e si cerca.