Nata a Livorno nel 1968, laureata in filosofia, Lara Leonardi ha al suo attivo diverse mostre personali, tra le quali una al Meeting di Rimini nel 2011. Nel 2013 ha esposto due volte a Milano, a gennaio alla Galleria Velasquez (Mostra «Al buio») e dal 23 marzo al 14 aprile alla Galleria Lumera (Mostra «Appassionata»). «I suoi volti prorompono dalle tele con un senso maturo di soluzione e di risoluzione. […] Le sagome recano anche il ricordo di caricature, bambole ritagliate, immagini di vecchie riviste: hanno una patina leggera di antico, che sembra, ad ogni sguardo, rivivere, e ridarsi, in un mondo che della pittura non sembra più cosa farsene, ma la fa, continuamente, perché sembra essere un destino, un compito, per tutti» (Beatrice Buscaroli).



Lara, che cosa significa per te dipingere?
L’atto del dipingere per me è un cammino misterioso, duro e faticoso, ma sorprendente, durante il quale mi è dato di incontrare qualcuno che inaspettatamente impone la Sua presenza. Io cammino e Lui viene da me.

Come è avvenuta la scoperta della tua passione e della tua vocazione? Come e quando sei stata attratta e affascinata dalla pittura?
Fin da bambina io mi sorprendevo in ogni momento libero a disegnare; attraverso quei segni che uscivano da me, raccontavo ciò che vedevo. Era una dinamica viva e prorompente, io non la cercavo, ma essa viveva in me. Il disegno era una strada inesauribile dentro la quale io riscoprivo me. Tutto è iniziato un giorno in cui ho raccolto un fiore in un giardino: il fiore si adagiò dolcemente tra le mie mani ed io vi guardai dentro. Lì, in quell’istante, scoprii il disegno più bello che io potessi desiderare, tanto era perfetto. Lì, in un istante, di fronte alla bellezza di un fiore appena colto, fui ferita e nacque la mia vocazione. Nasco come disegnatrice e anche quando non disegno guardo il mondo come se stessi disegnando. La pittura è nata in me in età adulta dopo un percorso rigido legato allo studio della forma: mi ha sempre affascinato il fatto che dal nulla apparente rappresentato dallo spazio bianco di un foglio di carta, attraverso un lavoro e una ricerca piena di speranza, potesse nascere un segno da cui partire, ripartire ogni volta. La pittura è maturata in me come un’esigenza vitale. Non sono stata affascinata da essa, ma ad un certo punto è entrata dentro al mio operare; il colore grida, lotta: il rosso è rosso, il blu è blu, l’arancio è arancio, esso non mente mentre si mostra, rivela, urta.



Quali sono i tuoi maestri, sia persone ancora vive che ti accompagnano sia pittori del passato?

In questo cammino di verifica della mia vocazione ho incontrato un maestro che è diventato un amico. Mauro, che è un artista professionista ed insegnante di disegno, guardando i miei disegni che ritraevano i miei primi volti, mi ha detto “da oggi io ti farò compagnia in questo percorso. Tu lavora ed io ti correggerò”. Le sue indicazioni erano di tipo tecnico, perché io potessi riappropriarmi della conoscenza del volto umano, ma erano sempre legate ad una domanda che lui mi poneva incessantemente affinché io potessi esser libera di fronte a ciò che desideravo seguire. La prima volta che incontrai Mauro mi disse queste parole: «Tu devi imparare a concepire il disegno come un vero lavoro che esige una continuità di esecuzione e di dedizione. Devi importi un orario di lavoro e ad esso essere fedele tutti i giorni». Il mio lavoro, eseguito per anni in silenzio nel mio studio, quando quasi nessuno conosceva la mia vocazione, mi ha strutturata perché io potessi percepire ciò che stavo facendo come un cammino, un cammino di conversione attraverso il dono che mi era stato offerto. La compagnia viva di questo amico mi ha fatto conoscere un nuovo modo di concepire il lavoro e mi ha aiutato a rendere più vero tutto quello che io stavo creando: non giudicavo più da sola il mio operare, ma era tutto dentro un paragone continuo. Quest’esperienza mi ha resa assetata di incontrare di nuovo, di guardare ogni cosa, immedesimandomi con chi l’aveva creata.



Nella tua opera sembra evidente la suggestione di Modigliani.
Ho incontrato Amedeo Modigliani attraverso alcune stampe di libri vecchi che mi aveva regalato mio padre: sono i libri che mi hanno accompagnata fin dall’infanzia; io mi sono sempre nutrita di ciò che guardavo. Amedeo Modigliani o Dedo, come veniva chiamato a Livorno dagli amici, è diventato mio amico, un amico vivo che ogni giorno veniva ad incontrarmi nel mio studio e più guardavo ciò che aveva creato, più avevo sete di riguardare ancora, ancora, perché attraverso i suoi tratti disegnati io scoprivo di più me e quello che cercavo.

Perché il soggetto prevalente è il volto umano?
Io dipingo volti umani. È il volto umano che ha cambiato la mia vita e l’ho incontrato attraverso il volto di Paolo, mio marito: stavo piangendo ed avevo il capo rivolto verso la terra, era una posizione che in seguito a tante sofferenze vissute usavo frequentemente. Una mano, calda e grande carezzò i miei capelli e mi «chiese» dolcemente di alzare il viso verso l’alto. I miei occhi incontrarono altri occhi, gli occhi di Paolo che mi indicarono di guardare in un’altra direzione. Questo fatto è entrato nella mia vita e io ho scoperto, come fossi una bambina appena nata, tutta la bellezza che c’è, che è per me. Il volto umano è tutto ciò che di più prezioso ho. Gli occhi ti guardano e dentro a quegli occhi ci sei tu.

Chi sono le persone rappresentate?

Il primo ritratto che ho eseguito è stato il volto di mio padre, poi il volto degli amici più cari, quello di mia figlia, i volti dei miei maestri che si sono rivelati anche attraverso lo studio amorevole delle loro opere. Quest’anno mi accade, invece, di vedere dentro di me alcune persone che urgentemente mi chiedono di essere ritratte. Il quadro mi apre ad un incontro, ad accogliere queste persone sconosciute che diventano familiari. Ogni volto mi conduce ad un altro volto, ad un altro ancora e mi sorprendo sempre a chiedere davanti all’immagine che nasce «chi sei tu che mi guardi?».

Come nascono le opere? Come scegli i colori per il volto?
Le opere nascono misteriosamente. È un fatto che c’è, esso accade, non lo devo inventare, ed anche avessi questa tentazione il risultato mi stuferebbe. L’opera nasce: c’è una disponibilità iniziale, un’offerta di sé, un abbandono, un travaglio doloroso con una sorpresa dentro: un incontro, un incontro inimmaginabile. È un avvenimento che riaccade ogni volta ed ogni volta si fa nuovo. I soggetti delle opere s’impongono a me attraverso la realtà, perché qualche persona mi chiede di essere ritratta o li scopro mentre lavoro direttamente sulla tela. I colori dei volti non li scelgo mai secondo un progetto ben delineato, piuttosto mi accade di vederli verdi, gialli, rossi… già prima di dipingerli. Più sono fedele a questa visione, più il quadro si costruisce in maniera armonica, senza passaggi artificiosi, perché è come se quell’immagine s’incarnasse davanti ai miei occhi fino a diventare una presenza amata fin dal primo istante.

(Giovanni Fighera)