È curioso notare come, a fronte di tante persone che conoscono il significato di “etimologia” molte meno ne conoscano l’etimologia. La parola è collegata all’aggettivo “éteos” che in greco antico significa “vero” tant’è che Cicerone l’aveva tradotta con veriloquium. L’etimologia di “etimologia”, dunque, è “discorso sul vero”. Questa scienza, anche se non subito con questo nome, è nata insieme alla riflessione filosofica antica e si è subito ben stabilizzata, sia pure con risultati raramente convincenti, già in epoca alessandrina.



Dico questo perché il peso stupefacente del richiamo di Papa Francesco sul linguaggio in occasione di una meditazione mattutina nella chiesa di Santa Marta possa essere, se possibile, messo ancor più in risalto. Che questo Papa fosse attento al linguaggio si era capito dalle sue prime parole: chiama se stesso un “vescovo” – episcopo, cioè: letteralmente “un supervisore” – riportandoci alle origini della chiesa. È un Papa che piace ai telegiornali perché dice “buon appetito” e guarda l’orologio – ma a quale livello di ieraticità ci eravamo condannati? – ma, ben al di là degli indici di gradimento mediatici, questo Papa è un Papa che conosce profondissimamente tutta la storia culturale dell’occidente e, senza farcelo percepire, soavemente quasi, ci sprona a riflessioni che nessun telegiornale si accorgerebbe mai di divulgare.



In una recente meditazione mattutina in Santa Marta, parlando della pagina del vangelo dove alcuni farisei e alcuni erodiani tentano di far cadere in trappola Gesù (Marco 12, 13-17) dice: “Loro però non credevano a quello che dicevano. Era una lusinga […] è proprio il discorso dell’adulatore, il quale va con parole morbide, con parole belle, con parole troppo zuccherate». La corruzione, nelle parole del Papa, viene qui vista come connaturata con un uso perverso del linguaggio, cioè un uso non secondo verità. Come reagì Cristo, non solo in questo frangente ma in tutta la sua storia pubblica, rispetto alla questione della verità? 



Mi sia permessa un’altra nota storica. In uno dei suoi più famosi dialoghi – il “Gorgia” – Platone attacca la retorica come una disciplina vuota se non è soddisfatta una condizione essenziale della quale dirò subito. Anzi – dice Platone – la retorica è subdola perché non ha un dominio limitato: sta ovunque perfino nella medicina, nella ginnastica e nella culinaria. La retorica, nella visione di Platone, è la tecnica di persuadere formando discorsi coerenti che non lasciano scampo. Ma perché è dannosa? “Ebbene o Gorgia, se devo dirti tutto, io penso che la retorica non sia una tecnica, ma una lusinga” – ci dice Platone, usando la stessa parola usata dal Papa – a meno che, conclude, non sia utilizzata per fare qualcosa “secondo intelligenza”, cioè per il bene comune”. 

In altre parole, se il linguaggio alla fine non cambia la realtà concreta che mi si pone di fronte secondo il mio bene è un danno. Lo scenario descritto da Platone non può lasciarci inerti: “Accade invece che, quando ci si trovi in disaccordo su qualche punto, ci si infuri e si faccia a gara per avere la meglio l’uno sull’altro, rinunciando alla ricerca della verità sull’argomento proposto.”

Cosa aggiunge mai dunque Cristo a Platone, rispetto al tema del linguaggio, visto che già la filosofia era andata così avanti su questo tema? La risposta la fornisce, con leggerezza apparente, in un altro punto della meditazione, Papa Francesco, quando aggiunge: “Quando Gesù ci dice ‘il vostro parlare sia sì sì, no, no’ ci dice il contrario di quello che dicono i corrotti”. Sarebbe strano ridurre questa indicazione di Cristo alla semplice necessità di sintesi e all’evitamento di discorsi articolati; anche il ragionare, ovviamente, è proprio dell’uomo. Associare il richiamo del linguaggio all’uso che ne fanno i bambini, mi sembra invece mettere in massima evidenza che l’uso del linguaggio vero dipende dall’adesione di chi lo usa alla realtà. 

Sono infatti convinto che il riferimento al linguaggio dei bambini non può e non deve essere liquidato come un riferimento di comodo ad uno stato di purezza “disumano” − la purezza infantile − né certamente è questa l’intenzione del Papa, dato il contesto. Non trovo a questo punto modo migliore di spiegarmi se non attingere alla mia esperienza. Non ho mai incontrato don Giussani, ma ebbi la fortuna di assistere, durante una messa “d’inizio d’anno” a Milano, ad un suo intervento in diretta che non so se sia mai stato pubblicato. Quelle sue parole, pur così affaticate e difficili da comprendere, quel giorno mi cambiarono. Giussani ci mise tutti in guardia da un’interpretazione “fanciullinesca” dei bambini come individui “puri”: sottolineò anzi che “tornare come bambini” vuol dire essenzialmente chiedere, chiedere ad oltranza, chiedere instancabilmente, chiedere fidandosi che chi ci ascolta può esaudire la nostra richiesta. Tornare bambini, disse Giussani, vuol dire, cioè, pregare senza sosta il Padre, chiedendo il nostro bene e, contemporaneamente, accettando la nostra condizione di sue creature. Dunque il linguaggio dei bambini non è un linguaggio da adottare perché semplice ma perché aderisce al vero delle nostre richieste. Un linguaggio che non ha vergogna di dire morte, salvami, mi sento vuoto o ti amo: un linguaggio, insomma, che non ha “vergogna di Cristo”. Solo così si ha un linguaggio non corrotto, per usare le parole di Papa Francesco.

Questo stato di cose ci porta diretti ad una domanda cruciale: “Un uomo colto, un cives romanus del primo secolo del primo millennio, poteva credere, credere proprio, alla divinità del Figlio di Dio, Gesù Cristo?”. Viene davvero voglia, per una volta, di ribaltare la famosissima citazione di Dostoevskij in questo modo. La proposta di Cristo, infatti, è certo difficile da accettare per un “europeo dei nostri giorni” ma non credo affato che dovesse esserlo di meno per un uomo di epoca augustea che aveva alle spalle secoli di filosofia e di scienza che spaziano dai fisici ionici del VI secolo fino ad Epicuro, passando attraverso Platone, Democrito e Aristotele. 

Oggi come allora, dunque, solo se il nostro linguaggio – e in definitiva il nostro pensiero – non sono un esercizio retorico, solo se si ha il coraggio di chiamare le cose senza cosmesi lessicali, solo se ci si arrende al desiderio di infinito e di tenerezza che ci teniamo dentro per paura che ci esploda tra le mani, solo cioè se si incontra qualcuno che non lascia fuori niente dal rapporto con lui e si dona a noi e ci mostra fatti, allora il nostro linguaggio non è una trappola e una lusinga perversa. La prova ce la dà la realtà e si misura sul nostro senso di pienezza. E, tornando all’etimologia, cioè alla ricerca del vero, mi pare che allora, solo allora, si possa arrivare a intuire quale rivoluzionario senso di rinascita deve aver provato un cives romanus quando un ebreo nella Palestina del primo secolo gli andava incontro e guardandolo negli occhi gli diceva “io sono la verità”; “io”, non un suo ragionamento.

Leggi anche

SCUOLA/ Quei giovani ubriachi, "persi" tra divieti e felicità (che manca)SCUOLA/ Chiosso: senza regole avremo solo figli infeliciSCUOLA/ Attenti al "brutto sogno" di Elena Cattaneo, la scienza non è tutto