C’è una mostra che quest’estate non andrebbe persa: è quella dedicata ad Edouard Manet a Venezia, negli stupendi spazi di Palazzo Ducale. Perché Manet a Venezia? Perché all’origine della sua parabola, breve ma decisiva per i destini della storia della pittura, ci furono proprio due viaggi in Italia, nel 1853 e nel 1857, quando cioè aveva poco più di 20 anni. Come recita il titolo della mostra si tratta insomma di un “ritorno a Venezia”. Ritorno in tutti i sensi, non solo per i tanti quadri fondamentali che sono arrivati a Palazzo Ducale, a iniziare dall’Olympia che non aveva mai lasciato Parigi prima d’ora. Manet “ritorna” anche perché viene ristabilita l’importanza del suo rapporto con la pittura in particolare veneziana, dopo che la critica aveva insistito solo sulla sua dipendenza dalla grande pittura spagnola.



Per rimettere le cose a posto a Palazzo Ducale sono state fatte le cose in grande: ad esempio, l’Olympia è esposta a fianco del capolavoro che ispirò Manet, vale a dire la Venere di Urbino di Tiziano, proveniente dagli Uffizi. L’accostamento è mozzafiato, perché evidenzia sia le affinità quanto le profonde differenze. La Venere di Tiziano è certamente in atteggiamento più impudico rispetto a quella di Manet, eppure fu quest’ultima a sollevare il maggiore scandalo quando venne esposta per la prima volta al pubblico al Salon del 1863. La Francia di metà 800 era più puritana dell’Italia rinascimentale? Può anche essere. Ma a guardare le due opere da vicino ci si accorge come Manet abbia messo in opera un dispositivo che in effetti ancor oggi mette quasi in imbarazzo l’osservatore. Se la Venere di Tiziano infatti occupa un suo spazio illusorio dentro la tela quindi è aldilà dello spazio in cui noi ci troviamo, l’Olympia di Manet non ha più quello spazio. Alle sue spalle è calato un muro, che sembra coincidere con il muro a cui appesa la tela. Quindi il suo corpo è in un certo senso al di qua, nello stesso spazio in cui ci troviamo noi. 



Per di più, se la Venere di Tiziano è illuminata con una luce magica e delicata proveniente da sinistra, la donna di Manet invece è quasi “bombardata” da una luce violenta e frontale. Come notò Michel Foucault, autore di alcune straordinarie lezioni sulla pittura di Manet, è come se il nostro sguardo accendesse la luce sull’Olympia (Foucault coniò infatti la categoria dello “spettatore lampadoforo”).

Lo stesso effetto lo si sperimenta davanti ad un’altra coppia di capolavori, accostati sui muri di Palazzo Ducale: lo Zola di Manet e il Ritratto di Gentiluomo, uno dei più celebri quadri di Lotto. 



C’è poi un altro aspetto “stregante” nella pittura di Manet, un aspetto che potremmo chiamare “strategia dello sguardo”: i suoi sono personaggi che stanno guardando qualcosa che è fuori dalla tela e che noi non vediamo. Il loro non è un mettersi in mostra ma un mettersi in relazione con qualcosa che c’è e sta dove noi siamo: tanto che vien voglia di voltarci, per controllare alle nostre spalle cosa stia accadendo. Sono sguardi che bucano la protezione calda della pittura magistrale di Manet, che se ne tiran fuori (una pittura “tentatrice” che non si finirebbe mai di guardare). 

Manet, scrisse sempre Foucault, «ha posto la condizione fondamentale affinché un giorno ci si potesse liberare della rappresentazione».La sua è un’opera aperta, che interpella sempre chi guarda chiamandolo a una relazione inattesa. Come ha detto Meyer Shapiro, i suoi personaggi non sono mai delle terze persone ma delle seconde: sono un “tu” che cerca la nostra presenza. E ovviamente la trova, tanta è la loro bellezza…

L’Associazione Testori organizza una visita alla mostra di Venezia il prossimo 29 giugno. Qui trovate tutti i particolari.