Si può scrivere poesia, d’accordo. O piccarsi di vivere da poeti. Ma che cos’è invece, a quale dimensione altra attiene il vivere la poesia? È la prima domanda che insorge leggendo il libro intervista di Alessandro Rivali Giampiero Neri, un maestro in ombra, in uscita in questi giorni da Jaca Book. Un libro-intervista che è in realtà – e molto ne gode – un dialogo tra due amici, ché non di sodalizio letterario ma di vera amicizia si tratta, come lo stesso Neri, classe 1927, sottolinea in chiusura di volume: «Cosa importa se fra noi la differenza di tempo supera il mezzo secolo? Un amico non si trova ad ogni angolo di strada» (p. 132).
Chi sia Giampiero Neri occorre dirlo ai tanti non frequentatori della poesia contemporanea: fratello appartato e meno noto di Giuseppe Pontiggia, poeta di tarda fioritura ma di statura altissima, tra le voci più sicure della poesia italiana degli ultimi quarant’anni. Del pari occorre dire ai non appassionati chi sia il deuteragonista del dialogo: Alessandro Rivali, quarant’anni scarsi, tra i pochi poeti di oggi a credere realmente che l’epica non sia una dimensione storica irrimediabilmente perduta, ma una categoria permanente dell’avventura umana e della sua espressività.
Ma perché parlare anche ai non appassionati di un libro del genere? Perché quando è comunione vera tra uomini veri – si pensi agli epistolari Caproni-Betocchi, Caproni-Luzi, Luzi-Traverso, per dirne alcuni – il dialogo tra due poeti non è cosa da specialisti ma, appunto, da appassionati: della poesia, certamente; ma prima di tutto, e semplicemente, della vita. Si parla infatti tanto di letteratura, in questo libro, ma se ne parla anzitutto per vagliarla, per saltare il fosso dallo stagno della chiacchiera all’oceano vorticante della vertigine, dal campo della letteratura di evasione a quello di chi spande in ogni sillaba il proprio sangue: «Soltanto i laudatores temporis si aspettano dalla letteratura qualcosa di piacevole, ma io, come ho detto più volte, mi aspetto prima di tutto la verità, ossia una parola che ci informi sulla vita, e non stupidaggini (p. 70)».
È questa percezione della serietà dell’arte, della responsabilità che chiede, il dono più prezioso che Neri fa a chi lo legge. Ed è questo dono, all’apparenza ristretto a chi voglia vender parolette, quello che paradossalmente è il più apprezzabile nella vita di chiunque. Perché è un atteggiamento, una tensione a cercare la verità di ciò in cui si è immersi, che origina da un dipanarsi di storie umane, di incontri, di vite di provincia e di metropoli misteriosamente ma inevitabilmente impastate tra loro.
Così le figure degli insegnanti, in primis quel professor Fumagalli che tante volte verrà rappresentato nei suoi versi, convinto che «per scegliere un operaio bisognava vedere se lavorava con precisione e con calma (p. 31)»; o fratel Adeodato, «professore di matematica per obbedienza (p. 43)». Così le figure sanguigne e dolorose dei familiari: il padre assassinato fuori dall’ufficio dopo l’8 settembre; la madre, attrice appassionata di provincia; la sorella Elena, rosa nel suo breve vivere dalla pesantezza delle cose vuote. E su tutti il fratello Giuseppe, «il Peppo», che del rapporto di Neri con la parola poetica e con il suo carattere di vocazione è lo specchio: «Aveva l’intelligenza per scrivere, ma non era abbastanza per creare un’opera d’arte (p. 93)».
C’è tanta storia, nel parlare di Neri, tanta memoria che si snoda tra la microstoria dell’autore e la grande storia delle nazioni, degli scrittori e delle loro biografie, che lo appassionano perché ha «interesse per le persone (p. 74)». Una storia mai compiuta, sempre in divenire (ed è ancora la pratica scrittoria a illuminare in questo senso: «Io utilizzo un tempo solo, che è l’imperfetto», p. 96), ma in cui Neri ripone fiducia («non sono pessimista sulla storia», p. 129), proprio perché consapevole che il suo compimento è fuori da essa. «È importante credere nella grazia (p. 59)» ci dice infatti, aprendo lo scorcio su una dimensione in cui alla lotta della vita spetti di pacificarsi: «l’essenza del cristianesimo è il perdono. Il perdono ci appartiene come buona novella, contro il rancore e la vendetta (p. 82)».
È, questo tratto neriano, uno dei più stupefacenti tra quelli che affiorano nel colloquio, e che riporta al nesso tra conoscenza, parola ed esperienza. Perché se è vero che «la cognizione», cioè la percezione profonda delle cose, «non è una conoscenza come quella del triangolo equilatero, ma è un’esperienza (p. 95)», e se è vero che non si può non legare «la poesia alla verità (p. 104)», con altrettanta chiarezza emerge, nelle parole di Neri, il fatto che tanto questa esigenza del vero, tanto quel miracolo che ne è strumento di ricerca – l’arte del linguaggio – sono doni di cui l’uomo si trova quasi malgré soi investito. E che proprio in questi miracoli, nella loro inestinguibilità, si staglia la percezione della sua grandezza: «La poesia rimane un’esigenza dell’animo umano». È «sinonimo di verità e come tale sarà sempre ricercata dall’uomo (p. 107)».
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Alessandro Rivali, Giampiero Neri, un maestro in ombra, Jaca Book, Milano 2013 (160 pp., 14 euro)