Il dibattito in corso sulla riforma costituzionale del Paese ha raggiunto livelli di ipocrisia e strumentalizzazione che gettano discredito sull’intera élite politica e intellettuale specializzata nelle architetture istituzionali. È paradossale che mentre si inseguono sogni di palingenesi democratica capaci di scompaginare il vecchio sistema dei partiti e delle gerarchie parlamentari, e si è persino corteggiato il grillismo come forma di grande svolta democratica, si dia ancora credito a una linea di totale irriformabilità costituzionale, sostenuta con molte argomentazioni da Zagrebelsky, Rodotà e Ferrajoli. 



Mi lascia, ancora una volta, turbato la distanza abissale tra le formule giuridiche, rese sempre più fredde ogni volta che vengono pronunciate e svuotate di senso da intellettuali e politici, e la società italiana, travagliata da una crisi profonda che non può risolversi attraverso leggi elettorali o pastrocchi istituzionali.



Mentre si esaltano da più parti i diritti soggettivi e la loro inviolabilità, lo stato sociale è devastato e nessun diritto è davvero garantito; oggi, paradossalmente, molti di coloro che proclamano improvvisamente l’intoccabilità della Costituzione, pur non avendo esitato in passato a rimaneggiarla più volte, contribuiscono ogni giorno a disattenderne i principi nati dal patto sociale del dopoguerra. 

Se guardiamo, attraverso le recenti vicende giudiziarie, lo sviluppo delle dinamiche economiche italiane, ci accorgiamo di un enorme e gravissimo processo di privatizzazione della ricchezza. Non si può affrontare il grande problema delle riforme e della ricostruzione di un sistema pubblico limitandosi a inventare una nuova denominazione per descrivere una categoria di beni, utilità e bisogni arbitrariamente definiti “comuni”. Il vero problema è quello della decisione politica, ovvero delle pratiche attraverso cui si producono decisioni vincolanti per un’intera popolazione. 



È paradossale come si possa immaginare una vera e propria rivoluzione democratica dell’organizzazione parlamentare, partitica e di governo senza riconoscere la rilevanza pratica dei momenti di discontinuità operativa. Una Costituzione si fa nella vita pratica; vorrei ricordare che negli anni della crisi della prima Repubblica, in seguito delle provocazioni di Gianfranco Miglio, gli intellettuali, Cacciari in testa, sottolineavano la necessità di un nuovo grande momento di decisione politica, capace di riassumere differenze culturali e articolazioni regionali. Erano anni in cui il Paese si interrogava sulla necessità di mantenere i valori fondamentali, ma di organizzare le istituzioni in modo più disponibile all’effettiva partecipazione popolare.  

Nel passaggio dalla prima alla seconda Repubblica le invocazioni, come quelle famose di Gianfranco Pasquino e di Augusto Barbera, sul restituire lo scettro al popolo, eliminando i partiti e le forme di mediazione politiche, hanno soltanto prodotto caos legislativo, caos istituzionale e caos sociale. Al popolo non è stato restituito nessuno scettro mentre la società italiana si è sempre più frantumata; il sistema dell’informazione massmediatica e dei dibattiti pubblici si svolge in regimi di monopolio più o meno occulti e, mentre viene decantata la nuova democrazia diretta della rete, i cittadini non riescono più a sapere nulla sul seguito degli scoop improvvisi che agitano per qualche giorno l’opinione pubblica. 

Per fare solo un esempio, da quando un illustre professionista di questo paese è sembrato essere coinvolto in qualche misura nei rapporti tra Montepaschi e finanza vaticana, non si è saputo più niente delle trame che stavano emergendo in superficie. Uno scandalo finanziario come quello di Montepaschi, che ha avuto un peso decisivo anche nella gestione delle elezioni politiche, stranamente ha perso anche la penultima pagina delle notizie e nessuno è in grado di dire se ci sono ancora indagini in corso e che cosa stanno lasciando intuire dei rapporti fra i segmenti della finanza italiana e straniera.

La pubblicistica sul rilancio democratico del controllo popolare si è risolta in una serie di formule vuote strumentali a non prendere posizione sui problemi reali: siamo invasi da parole generiche di illustri giuristi che non hanno mai proposto operativamente un sistema per rendere più efficace e trasparente il governo del Paese. Le formule vuote sono servite ad occultare il rifiuto di analizzare la profondità della crisi civile e morale del Paese, che non richiede elenchi di diritti e fantomatiche reti di comunicazione mediatica, ma coesione sociale effettiva nell’assunzione di responsabilità e compiti operativi nella vita pratica. In questo contesto si è inserita non di rado un’azione impropria della magistratura, che ha costituito l’alleato di un’inerte strategia formalistica. 

Se qualcuno volesse approfondire il tema delle formule vuote come ideologia ineffettuale potrebbe, partendo dagli studi sviluppati in Germania negli anni 70 sulla questione del rapporto tra religione, politica e diritto, cercare di capire quali sono le effettive strategie di potere che si celano dietro espressioni come “interesse generale”, “interesse al bene della nazione”, “interesse allo sviluppo economico”, “competitività internazionale”, “austerità monetaria”, “progresso e innovazione”, “diritti umani non negoziabili”, specchietti per le allodole che hanno finito con l’oscurare ogni seria analisi della realtà. L’ultimo allievo della scuola di Francoforte, Rudolf Wietholter, ne Le formule magiche della scienza giuridica, partendo dal celebre giudizio di Re Salomone argomentava come il problema di chi sia la vera “madre” non possa essere risolto con cavilli giuridici ma cercando di capire chi delle due donne, pur di salvare la vita del piccolo, sia disposta a sacrificare il proprio amore materno. Oggi, chi è disposto a sacrificare i propri interessi per ricostruire una fiducia collettiva nel Paese?

Secondo una distinzione tradizionale, i discorsi sul diritto possono essere di due tipi: l’analisi del Sein (essere del diritto) e l’analisi del Sollen (dover essere del diritto) che, in base ad un’idea “presupposta” di giustizia, propone criteri normativi astrattamente superiori a quelli vigenti nell’esperienza reale. Se si vuole capire come funziona il diritto di una società, è necessario analizzare le forme giuridiche e le istituzioni attraverso cui si creano e si perpetuano le differenze di potere nella vita reale, dallo sfratto di un cittadino che non riesce a pagare il mutuo alle grandi transazioni finanziarie con cui si gestisce il fallimento di un intero settore economico, in cui sono implicati interessi di grandi paesi e di grandi potentati internazionali. 

Mentre tutti i giornali comunicano giorno dopo giorno notizie di fallimenti di migliaia di piccole e medie imprese, assistiamo impotenti alla crisi del settore metalmeccanico, del settore minerario, del settore dell’energia, in cui i protagonisti dei fallimenti sono premiati con liquidazioni personali pari al bilancio di un’intera regione. Di fronte a una così profonda frattura tra i pochi che detengono privilegi e potere economico-politico e la società italiana, bisognerebbe prendere atto di come alla metamorfosi costituzionale iniziata all’inizio degli anni 90 e mai risolta corrispondano metamorfosi ancora più gravi. Non è più possibile continuare ad affrontare il tema delle riforme con lo schematismo giuridico e le formule vuote; le Costituzioni non vivono senza rotture e discontinuità, il punto è non rendere le discontinuità laceranti. Viceversa, una Costituzione che non resista alle trasformazioni della società reale finisce per non vivere e soccombere alle continue incursioni di una cultura giuridica astratta.

Oggi è fondamentale ritrovare un’identità di fondo che faccia sentire la società italiana legata dalla continuazione dei propri affetti, della propria storia, della propria memoria. Perché non si riesce a riprendere un percorso collettivo che tante volte ha caratterizzato con slancio e passione le grandi stagioni del nostro Paese, fin dalla Resistenza e dalla Costituente? 

Per capirlo è necessaria una critica della vuota rigidità delle formule giuridiche e istituzionali. Già negli anni 70, mentre iniziavano ad imporsi le culture neoliberali, si apriva un dibattito tra chi, come me, provava a teorizzare la possibilità di un “uso alternativo del diritto”, e chi affermava la cosiddetta “strategia dei diritti”, che avrebbe avuto in Stefano Rodotà uno dei protagonisti. Man mano che la strategia dei diritti individuali penetrava nella cultura dominante, e anche in quella delle classi subalterne, si affermava una profonda modificazione dell’assetto dei poteri reali che operano nella società, dissociando, nel senso comune, i diritti da un’idea di conflitto politico che incidesse davvero sulle diseguaglianze sociali, rimaste tali nonostante la cosiddetta uguaglianza formale della Costituzione. 

Se gli anni 70 erano caratterizzati dalla lotta democratica per la conquista della partecipazione ai processi decisionali dei lavoratori e delle fasce sociali più deboli, poco dopo, paradossalmente, la lotta per la democratizzazione del potere veniva sostituita dalla lotta per la conquista di diritti individuali, depotenziando quasi totalmente l’iniziativa dei soggetti collettivi della vita politica. Ormai la rilevanza giuridica degli interessi collettivi è stata negata, insieme al concetto di legame e di vincolo che incarnava l’aspirazione alla solidarietà e alla reciprocità; la realtà sociale, le sue contraddizioni, le diffuse iniquità nella distribuzione della ricchezza sono state ridimensionate a contingenze congiunturali ed estromesse dalle lotte di rivendicazione di nuovi poteri democratici per le classi subalterne, tanto che Rodotà propone l’inedito concetto del “diritto ad avere diritti”, una formula che dovrebbe realizzare una tutela giuridica di ogni individuo nella concretezza dei suoi bisogni, ma che non si pone il problema di chi li debba realizzare e garantire. 

L’impatto della strategia dei diritti sulla cultura diffusa ha spostato l’attenzione pubblica dai problemi collettivi, che riguardano il potere e la democrazia, alle vicende individuali, attribuendo ai giudici il ruolo di custodi delle aspettative di giustizia. È paradossale che nell’epoca del diritto ad avere diritto siano scomparsi i diritti sociali e i diritti politici; mentre il diritto al lavoro e all’assistenza sono tramontati insieme allo stato sociale, i diritti all’uso indiscriminato di nuove tecniche procreative e allo sviluppo di una vera e propria medicina eugenetica diventano le nuove frontiere della civilizzazione. 

La strategia dei diritti ha accentuato i tratti individualistici della cultura giuridica occidentale, contribuendo in modo decisivo alla spoliticizzazione delle società e a una diffusione generalizzata dell’indifferenza etica; essa rivela la propria vocazione nichilista, in cui l’assunzione della libertà individuale come arbitrio assoluto è accentuata sempre più dall’alleanza con le nuove forme di scientismo tecnologico che favoriscono la chiusura autoreferenziale degli individui. La strategia dei diritti è dunque legata alla mercificazione della vita e della morte, alla totale manipolabilità della natura e all’impossibilità di rintracciare limiti in qualche principio extraindividuale. 

L’astrazione del falso universalismo, negando le differenze, riduce ogni persona ad una maschera vuota, consegna la vitalità degli esseri umani al dominio di pochi, soffoca chi ancora vuole lottare per una trasformazione della società. La fase che stiamo vivendo ha caratteri inediti e rischiosi ma ci sono persone, intelligenze, istituzioni, cittadini che hanno voglia di giocarsi di nuovo il rischio di vivere in un Paese migliore. Affrontiamo seriamente il grande tema della decisione politica nelle società complesse come sono ormai le nostre.