L’aspetto più stupefacente della vicenda legata alla brevettabilità di una sequenza del Dna umano è il fatto che si tratti della sentenza di un tribunale, anche se uno dei più importanti tribunali della nostra società contemporanea: la Corte Suprema degli Stati Uniti. Sorprende, cioè, che sia stato necessario un intervento giudiziario per ricordare a tutti noi la non disponibilità a essere “di” qualcuno, come se l’uomo fosse dimentico di sé.
Perché al di là della vicenda specifica, connessa alla Myriad Genetics, ciò che risulta pericoloso è la presunzione di potersi ritenere proprietari di una parte del gene umano e di poterlo, conseguentemente, commerciare, lucrando su qualcosa che è, invece, “patrimonio” di ogni uomo. Si dovrebbe parlare di mercato dell’uomo – perché è di questo che si tratta, non di altro –, e della astuta quanto superba intenzione di esserne i “legittimi” detentori. Non sembri eccessiva una tale analisi: una cosa sono i dati della natura che l’uomo scopre, ma di cui nessuno può impossessarsi, perché non gli appartengono, una cosa è l’artefatto inventato dall’ingegno umano.
È come se Galileo avesse voluto chiedere di entrare in possesso dei satelliti di Giove o delle innumerevoli stelle da lui scoperte (e perché no, anche dei monti, valli e mari lunari), invece di presentare – come aveva già provveduto sin dall’agosto del 1609 – il suo cannocchiale al Doge di Venezia, ricavandone giustamente una lauta ricompensa.
Lo scienziato pisano sa chiaramente qual è la differenza tra scoperta scientifica e prodotto del suo grande acume. In una lettera a Belisario Vinta, segretario di Stato del Granduca di Toscana scriveva: “Rendo grazie infinitamente a Dio, che si sia compiaciuto di fare me solo primo osservatore di cosa così ammiranda e tenuta a tutti i secoli occulta”. Mentre, parlando della costruzione del suo cannocchiale, in una famosa pagina del Saggiatore, parla della “fabbrica” di un “artificio”, straordinario quanto complesso da realizzare. Galileo stesso ci confessa che su 60 cannocchiali fatti “con qualche spesa e fatica, ne ho potuto eleggere se non un piccolissimo numero”. Ecco dunque qual è la vera differenza tra prodotto della scienza e scoperta scientifica: mentre quest’ultima assume sempre la caratteristica di un evento, qualcosa di imprevedibile di cui è possibile stupirsi, proprio come un bambino che ha coscienza per la prima volta del cielo stellato, l’invenzione prodotta è sempre passibile di aggiustamenti e perfezionamenti, dovuti alla maggiore capacità nel confezionamento dell’artefatto.
Galileo sapeva bene che le scoperte riguardanti la natura non potevano essere disponibili ad alcun tipo di mercificazione. E questo vale ancor di più per quelle che concernono la natura umana, anche nel caso si tratti di una sua minima parte, come nel caso del genoma umano.
E tuttavia, con la sentenza della Corte americana, ciò che si pone a tema non è solo la differenza tra scoperta e invenzione, come hanno fatto vedere bene tutti i commenti apparsi sui maggiori quotidiani in questi ultimi giorni, quanto piuttosto il rapporto originario della natura con l’uomo: tra ciò che la natura crea e quanto l’uomo produce, tra creazione e produzione.
L’atto creativo originario della natura è, infatti, irriducibile a ogni titolo di possesso da parte dell’uomo. È un atto libero, un evento che ha nella possibilità la sua forza generativa, e nell’unicità il suo carattere di novità. L’avvento dell’uomo, di ogni uomo, coincide con un tale atto della natura: una novità unica e irriducibile. Si tratta, come diceva Hannah Arendt, della particolare disposizione di ogni nuovo inizio, quella cioè di “irrompere nel mondo come un’infinita improbabilità”. Un’improbabilità che costituisce il tessuto di tutto quello che chiamiamo reale.